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Assolti. La verità taciuta perché non interessa a nessuno.

Assolti. La verità taciuta perché non interessa a nessuno.

Editoriale di Luigi Palamara


Reggio Calabria, estate del 2025. Dopo dieci anni, si chiude il processo "Rimborsopoli". Dieci anni. Una generazione intera in attesa. Dieci anni di titoli cubitali, paginate isteriche, dibattiti televisivi pieni di bava alla bocca. E ora? Sei condanne, diciotto assoluzioni, due prescrizioni. Ma non una riga, non un titolo degno, non una voce che dica a gran voce: «Erano innocenti».

È l’Italia del clamore, non della giustizia. È il Paese che accende i riflettori quando scattano le manette e li spegne – improvvisamente, vergognosamente – quando arriva un’assoluzione. È il Paese della gogna pubblica, dove l'informazione non cerca verità, ma sangue.

Quando scattò l’operazione “Erga omnes” nel 2015, l’Italia si fermò. I bar, le case, le scuole, le parrocchie: tutti avevano un’opinione, tutti lanciavano la sentenza. «Tutti ladri», si diceva. I nomi rimbalzavano su ogni bocca, su ogni prima pagina. L’accusa diventava condanna automatica. Nessuno, nemmeno per un istante, si prese la briga di distinguere, di attendere, di pensare. E i giornali? Penne impugnate come pugnali. Editoriali da plotone di esecuzione.

Oggi, però, che diciotto di quei “mostri” sono stati dichiarati innocenti perché il fatto non sussiste, i professionisti dell’indignazione dove sono? Dove sono i giornalisti che titolavano “Vergogna in Regione”? Dove sono i moralisti da salotto che urlavano alla corruzione sistemica?

Tacciono. Sprofondano in un silenzio osceno, codardo, indegno. Perché raccontare l’assoluzione non fa vendere. Perché la verità, quando non gronda scandalo, non interessa.

Ma chi ha vissuto dieci anni da imputato sa bene cosa lascia un’accusa. Sa cosa vuol dire vedere il proprio nome, la propria faccia, accostati a parole infamanti. Sa cosa vuol dire stringere i denti per spiegare a un figlio che no, papà non è un ladro, mentre il tg lo dà per certo. Sa cosa vuol dire guardare negli occhi chi ti aveva dato la mano fino al giorno prima e ora ti evita per strada.

L’assoluzione, anche quando arriva, non cancella quel dolore. Non lo spegne. Lo certifica. Ma nessuno ne parla. Nessuno ne scrive. Nessuno restituisce dignità.

E allora sì, chi tace oggi, chi non scrive con la stessa forza, lo stesso furore, con cui scrisse dieci anni fa, non è giornalista. È sciacallo. È parassita del dolore altrui. È uno che dovrebbe cambiare mestiere. E subito.

Perché la giustizia, quella vera, non si misura solo con le condanne. Ma anche – e soprattutto – con le assoluzioni. Con il rispetto dei fatti, delle sentenze, della sofferenza umana.

Un vulnus profondo, il nostro, che la legge prevede di sanare – con diritto all'oblio, con la rettifica, con la dignità – ma che nessuno si preoccupa di colmare. Perché la macchina del fango non ha freni, ma quella della verità non ha benzina.

E allora occhio. Mai dire: “A me non succederà”. Perché la giustizia cieca può inciampare. Oggi tocca a loro, domani può toccare a te.

E quel giorno, solo allora, capirai cosa vuol dire essere colpevole per sentito dire, e innocente inascoltato.

Firmato: uno che preferisce scrivere la verità, anche quando non fa rumore.

Luigi Palamara
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