Caso Occhiuto. La solitudine del potere e il silenzio dei calabresi
di Luigi Palamara
Esiste una stagione, nel percorso di ogni uomo pubblico, in cui la fiducia che lo ha consacrato comincia a pesargli come una colpa. È il tempo in cui il potere, lungi dal risolvere i problemi, diventa esso stesso problema. E da alleato si fa boia.
Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria, ha vissuto in questi anni il paradosso del potere nel Sud: essere chiamato a redimere un territorio che, da decenni, fa resistenza alla redenzione. Oggi si trova iscritto nel registro degli indagati con un’accusa infamante — corruzione — che in qualunque altra regione sarebbe bastata a scatenare l’opinione pubblica, la stampa, l’opposizione, perfino la Chiesa.
Ma non in Calabria.
Qui, l’indignazione è un lusso che la gente non può più permettersi. Qui si è rotta la cerniera tra la coscienza individuale e la speranza collettiva. Perché se da decenni si denuncia la mala politica, ma a ogni elezione si confermano gli stessi volti, gli stessi clan, gli stessi circuiti, allora forse il vero nemico non è il corrotto, ma il meccanismo che lo produce e lo mantiene.
I magistrati faranno il loro lavoro. L’avviso di garanzia, certo, non è una condanna. Ma l’inchiesta — al di là della sua conclusione giudiziaria — rivela un sistema che, anche senza reati, puzza di ingiustizia. Ed è questo che dovrebbe farci tremare i polsi.
Un uomo di nome Daffinà, già in odore di potere quando Occhiuto ancora prometteva efficienza e riforme, è oggi descritto come il crocevia di interessi, consulenze, accreditamenti sanitari e flussi di denaro. Una figura grigia ma onnipresente, come ce ne sono sempre state in Calabria: i veri signori delle stanze intermedie, quelli che non compaiono sulle schede elettorali, ma ne decidono gli esiti.
Occhiuto — ci dicono i suoi — non sapeva. O forse sapeva, ma non ha visto. O ha visto, ma non ha potuto. O ha potuto, ma non ha voluto. E qui, in questo spazio vago tra responsabilità e inerzia, si misura il valore di un amministratore.
Dinnanzi a certi uomini “il problema non è che abbiano tradito gli ideali. È che ne avessero mai avuti”.
Ricordiamo che il potere, per non corrompere, deve essere continuamente separato dal bisogno personale.
E noi con il nostro sguardo tagliente sulla nostra terra, osserviamo che il male più profondo del Sud non è la povertà, ma la solitudine civile, quel senso d’irrilevanza che spinge ogni uomo a pensare: “Tanto non cambierà nulla”.
Ed è proprio questo silenzio — non dei colpevoli, ma dei testimoni — che fa più paura.
Dov’è la Calabria che vuole sapere?
Dov’è l’opinione pubblica che interroga, che pretende, che chiede trasparenza e rigore?
Se Occhiuto è innocente, abbia il coraggio di spiegarci come ha potuto permettere che certi meccanismi si consolidassero sotto i suoi occhi. Se è colpevole, abbia il pudore di riconoscere che ha tradito una terra già abbastanza ferita. In entrambi i casi, il dovere è uno solo: parlare.
Perché oggi, più del reato, ci offende il silenzio. Quello dei cittadini, delle istituzioni, di una Regione intera che pare addormentata davanti al fuoco che la consuma.
Il potere, in Calabria, non è mai stato solo comando. È patto oscuro, sopravvivenza reciproca, clientela ancestrale. Ma se anche i migliori, come Occhiuto si professava, finiscono risucchiati in questo vortice — allora non è più questione di nomi, di partiti, di colpe.
È una questione di destino.
E forse è questo che fa più male: l’idea che la Calabria sia condannata non dai suoi nemici, ma dall’incapacità dei suoi figli migliori di cambiarla.
Luigi Palamara
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