La parola è più forte del fatto. Purtroppo.
Editoriale di Luigi Palamara uno che non si fida nemmeno dei fatti, figuriamoci della narrazione.
C’è ancora chi crede che la realtà conti qualcosa. Che la verità abbia peso. Che i fatti parlino da soli. Illusi. I fatti, poveretti, non parlano affatto. Rimangono lì, nudi, immobili, congelati come cadaveri all’obitorio. È la parola — quella strega elegante e ambigua — a imbalsamarli e renderli presentabili alla coscienza pubblica.
Sì, perché la parola è più forte del fatto, e non per miracolo, ma per mestiere. La parola sa vestirsi. Sa sedurre. Sa mentire con eleganza, verità con ritmo. Cambia il modo in cui guardi le cose. Prendi un evento qualsiasi: basta raccontarlo all’indietro e diventa una tragedia. Raccontalo con enfasi e diventa eroismo. Raccontalo col tono giusto e diventa una scusa per farti obbedire.
Chi non lo capisce è già nei guai. È il tipo che guarda il telegiornale con aria seria, annuisce, si indigna, poi va a dormire convinto di sapere. Non sa niente. È solo uno che ha preso in affitto il pensiero altrui, pagandolo con la propria libertà critica.
In Italia oggi, chi fa politica narra se stesso come un feuilleton a puntate, una soap opera ideologica dove il protagonista cambia idea ogni 24 ore. Quello che ha detto ieri è già scomparso oggi, e chi glielo fa notare viene tacciato di non capire "il contesto". Il guaio è che la gente lo sa, lo sente, ma fa finta di niente, forse per pigrizia, forse per disperazione. Ma continua a crederci. Ipnotizzata.
A Reggio Calabria, poi, la situazione assume tratti quasi caricaturali. Qui la narrazione politica non si fa nelle sedi istituzionali, ma nei bar, nei corridoi e nei comunicati stampa scritti in tono messianico, pieni di promesse vaghe e slogan riutilizzati. Manca un pensiero libero. Manca il contraddittorio. Manca perfino il piacere dell’argomentazione. Si vive di schermaglie minuscole, di rivalità personali, di piccole beghe senza visione, mentre il tempo scorre e le città affondano nell’abitudine dell’irrilevanza.
È anche per questo che ho deciso di fondare Carta Straccia, una testata giornalistica che non vuole “coprire i fatti”, ma spogliarli. Niente copia-incolla, niente comunicati imbellettati. Solo opinioni vere, pensate, perfino scomode. Perché se oggi tutto è narrazione, allora la sfida è riappropriarsi della parola, usarla non per decorare, ma per scorticare.
Opinione sempre e comunque. Oltre i fatti.
Il copia-incolla lo lasciamo agli altri, che sono già troppi. E, francamente, inutili.
La verità oggettiva, quella cosa sacra che i filosofi cercavano nei secoli bui, oggi è una leggenda urbana. Un po’ come la coerenza politica o l’autocritica in una conferenza stampa. In realtà esistono solo racconti, versioni, punti di vista. E ognuno si culla nella narrazione che lo consola.
Il problema? Più la mente è chiusa, più crede di sapere. Più è aperta, più si accorge che tutto è incerto, fragile, ambiguo. Ma è proprio in quell’ambiguità che nasce la comprensione. Perché capire non è possedere la verità. È tollerare il dubbio, convivere col caos, restare svegli mentre il mondo si addormenta dietro uno slogan.
E allora sì, la parola è più forte del fatto. È un’arma. Ma come ogni arma, può essere usata per difendere o per manipolare. Per aprire la mente o per inchiodarla a una bugia comoda.
La sfida è appena cominciata.
E non si vince con la cronaca. Si vince col pensiero.
A noi la scelta: essere schiavi del racconto o artigiani del senso.
Ma attenzione: chi si crede immune è già infetto.
Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati – Carta Straccia, testata in costruzione ma già fuori dal coro.
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