Non si spara alla cultura: la canzone proibita e il vizio della censura
Editoriale di Luigi Palamara
Ci risiamo. In Italia, dove la libertà d’espressione è spesso celebrata a parole ma negata nei fatti, un sindaco decide che una cantante non può cantare. Teresa Merante, voce controversa del neomelodico calabrese, è stata messa a tacere con un’ordinanza degna più del Minculpop che di una democrazia moderna. Il motivo? Le sue canzoni "veicolerebbero apologia della criminalità". E allora via lo spettacolo, serrate le casse, zittita la musica.
Ma davvero una canzone può trasformare un cittadino in mafioso? Davvero una strofa sul latitante può fare proseliti dell’‘ndrangheta tra gli spettatori in bermuda e infradito di un lido estivo?
È qui che la questione si fa grave. Non per la qualità artistica delle canzoni (che può piacere o meno, non è questo il punto), ma per il principio che si calpesta: l’arte non si censura. Mai. Neppure quando è scomoda, urticante, trasgressiva. Anzi: proprio allora è più necessaria che mai.
Non si diventa criminali ascoltando un brano discutibile. Come non si diventa cannibali dopo aver visto Hannibal Lecter. E non è certo un concerto a scatenare la “perdita di valori della legalità” se quei valori non sono già stati educati nella società.
Vietare una canzone significa darle più eco. Farle da megafono. È il paradosso eterno della censura: credendo di spegnere, accende.
Si può discutere sull'opportunità di certi testi, sulla loro estetica, sulla loro simbologia. Ma non si può vietare la voce a chi canta ciò che, nel bene o nel male, fa ormai parte della cultura popolare di una terra. Sì, cultura. Perché anche la subcultura è specchio della società. E non si guarisce uno specchio rompendolo.
Quella del sindaco di Vibo Valentia è una scivolata non solo di stile, ma di democrazia. Un gesto che vorrebbe proteggere la legalità, ma che in realtà minaccia la libertà. Perché domani, con lo stesso criterio, potrebbe toccare a un libro, a un film, a una mostra.
Non è un’esagerazione. È una deriva. E come tutte le derive, inizia con un piccolo gesto che sembra ragionevole. Finché non ci si ritrova a fare i conti con un silenzio inquietante: quello di un Paese che ha smesso di ascoltare.
Bisogna avere il coraggio di lasciar parlare anche ciò che non ci piace. Perché il diritto di parola o è universale o è solo un privilegio mascherato.
E la libertà, quando diventa un privilegio, ha già perso tutto il suo senso.
Luigi Palamara
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