Il volante e l’inferno: un viaggio nella psiche urbana
Editoriale di Luigi Palamara
Il luogo in cui l’essere umano civile, educato, persino devoto, cessa di esistere?
Un luogo piccolo, stretto, di vetro e metallo. Un guscio a quattro ruote dove l’anima si accartoccia come carta bruciata.
Quel luogo è l’automobile.
La nostra. La tua. La mia.
Ogni giorno, sulle strade di città e periferie, si compie un rito collettivo di metamorfosi involutiva: uomini che si trasformano in belve, donne in furie, ragazzi in piccoli dittatori con la patente. Al volante, anche il più cortese dei cittadini può diventare un mostro. Uno che sbraita, insulta, aggredisce. Uno che bestemmia, che minaccia, che maledice.
Uno che perde l’anima a ogni semaforo rosso.
E non stiamo parlando soltanto di teppisti. No. Qui il teppismo è democratico.
La rabbia è bipartisan.
Colpisce la signora distinta con la spesa nel bagagliaio e il pensionato con la giacca ben stirata. Li vedi. Li riconosci. A piedi sarebbero i primi a offrirti un caffè. In auto, diventano imprendibili schegge di odio.
Come se il sedile guidasse anche il cervello. Come se la carrozzeria proteggesse non solo dal mondo esterno, ma anche dalla coscienza.
Il fenomeno è psicologico, culturale, forse addirittura antropologico.
L’essere umano, messo in una condizione di “massa accelerata”, perde l’identità individuale per assumere un ruolo. E quale ruolo peggiore dell’automobilista furente, armato di clacson e adrenalina, che considera ogni altro essere vivente sulla strada un nemico da schiacciare?
L’italiano dà il peggio di sé quando si sente protetto. Che il volante diventa scudo e trincea.
La verità: «Siete vigliacchi. Perché insultare dal sedile è facile. Perché la vera civiltà è il controllo. È la capacità di non cedere alla bestia.»
Eppure…
Eppure basterebbe poco.
Un sorriso. Un gesto con la mano, non per mandare a quel paese, ma per cedere il passo. Una pausa. Una consapevolezza: che chi guida davanti a noi non è un ostacolo, ma un altro essere umano. Forse con un dolore. Forse con un figlio dietro che dorme. Forse con l’ansia addosso di chi è in ritardo non per capriccio, ma per necessità.
La città, vista da dentro un abitacolo, sembra un inferno. Ma forse quell’inferno ce lo portiamo dentro. E lo liberiamo proprio lì, al volante.
Allora, che fare?
Scrivere, innanzitutto.
Scrivere anche questo. Perché le parole, a volte, sono come semafori: fermano un gesto prima che si compia.
E poi scegliere. Scegliere di non essere il peggio di noi stessi. Perché la vita, quella vera, può cominciare e finire in un attimo. E merita di scorrere sotto una luce diversa: quella della gentilezza.
Non credi anche tu?
Luigi Palamara Tutti I diritti riservati
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