Roccaforte del Greco, il cuore ferito dell’Aspromonte
Editoriale di Luigi Palamara
Esiste un Paese in Italia che non muore: si spegne. Non cade tra le fiamme, non esplode sotto il fragore della Storia. Si dissolve, in silenzio, tra le crepe delle sue stesse ossa.
Si chiama Roccaforte del Greco. È un nome antico, scolpito su una rupe dell’Aspromonte, oggi quasi un sussurro nella memoria di chi, come me, lo ha vissuto quando ancora sapeva gridare.
Ma oggi quel grido è muto.
La natura, indomita, non ha più rivali. Si riprende tutto. Cancella le geometrie umane, soffoca i sentieri, divora i tetti. Dove c’erano voci e orizzonti, ora cresce l’erba alta, padrona e sepolcro.
Chi non c’era, chi non ha mai sentito l’odore del pane “tundu o a cucchia”, chi non ha corso dietro a un pallone su “lu campu”, vede solo ruderi. Ma chi ha vissuto queste pietre, chi ha amato questi ulivi, sente ancora un eco. Un'eco nell’anima, non più nel cuore: perché il cuore si stanca, dimentica. L’anima no.
Lì, sotto il sole cocente, viveva un popolo. Gente semplice, dignitosa, passionale. Gente che sapeva lavorare e cantare, bestemmiare e pregare nella stessa giornata. Oggi di quella gente rimangono case chiuse, porte marcite e finestre cieche. Rimane il dialetto, duro e sensuale come la terra che lo ha generato:
"Chi faciti? Simu cca!"
Era un saluto. Era un’appartenenza. Era l’anello invisibile di una comunità.
Ora non resta che un silenzio assordante, rotto solo dal vento e dal ricordo. I bambini non corrono, non urlano più. Non si litiga nemmeno, che è la forma più vera dell’amore meridionale.
E noi? Noi aspettiamo. Come se tutto fosse normale. Aspettiamo che si chiuda non una casa, ma un mondo intero. Con la complicità vile del silenzio. Con la rassegnazione di chi ha perso perfino la rabbia.
Eppure — Dio mio — quanto brillava la vita qui! Bastava l’ombra di un albero per far nascere una discussione. Bastava un forno acceso per sentirsi al centro dell’universo. Bastava esserci.
Oggi non c’è più la scuola. Non c’è più “lu furnu”. Non c’è più nemmeno il marciapiede, dove si consumavano i sogni più grandi dentro conversazioni infinite. Ma c’è ancora un uomo. Uno solo, forse. Che cammina con le mani in tasca e il cuore colmo di malinconia. Uno che guarda i rovi mangiarsi la vigna, ma dentro di sé vede ancora la luce.
Questa è la tragedia vera: non è la morte, è l’oblio.
Io sono figlio di questa terra. Io sono figlio di Roccaforte del Greco. E mentre cammino tra i suoi silenzi, capisco che non si muore solo quando il corpo cessa. Si muore quando nessuno ricorda più. Quando la nostalgia resta l’ultimo custode di un popolo.
Ma finché qualcuno scriverà queste parole, finché ci sarà anche solo una voce a raccontare, allora Roccaforte non sarà finita.
Non ancora.
Luigi Palamara Tutti I diritti riservati
Dipinto di Luigi Palamara
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@luigi.palamara Roccaforte del Greco, il cuore ferito dell’Aspromonte Editoriale di Luigi Palamara Esiste un Paese in Italia che non muore: si spegne. Non cade tra le fiamme, non esplode sotto il fragore della Storia. Si dissolve, in silenzio, tra le crepe delle sue stesse ossa. Si chiama Roccaforte del Greco. È un nome antico, scolpito su una rupe dell’Aspromonte, oggi quasi un sussurro nella memoria di chi, come me, lo ha vissuto quando ancora sapeva gridare. Ma oggi quel grido è muto. La natura, indomita, non ha più rivali. Si riprende tutto. Cancella le geometrie umane, soffoca i sentieri, divora i tetti. Dove c’erano voci e orizzonti, ora cresce l’erba alta, padrona e sepolcro. Chi non c’era, chi non ha mai sentito l’odore del pane “tundu o a cucchia”, chi non ha corso dietro a un pallone su “lu campu”, vede solo ruderi. Ma chi ha vissuto queste pietre, chi ha amato questi ulivi, sente ancora un eco. Un'eco nell’anima, non più nel cuore: perché il cuore si stanca, dimentica. L’anima no. Lì, sotto il sole cocente, viveva un popolo. Gente semplice, dignitosa, passionale. Gente che sapeva lavorare e cantare, bestemmiare e pregare nella stessa giornata. Oggi di quella gente rimangono case chiuse, porte marcite e finestre cieche. Rimane il dialetto, duro e sensuale come la terra che lo ha generato: "Chi faciti? Simu cca!" Era un saluto. Era un’appartenenza. Era l’anello invisibile di una comunità. Ora non resta che un silenzio assordante, rotto solo dal vento e dal ricordo. I bambini non corrono, non urlano più. Non si litiga nemmeno, che è la forma più vera dell’amore meridionale. E noi? Noi aspettiamo. Come se tutto fosse normale. Aspettiamo che si chiuda non una casa, ma un mondo intero. Con la complicità vile del silenzio. Con la rassegnazione di chi ha perso perfino la rabbia. Eppure — Dio mio — quanto brillava la vita qui! Bastava l’ombra di un albero per far nascere una discussione. Bastava un forno acceso per sentirsi al centro dell’universo. Bastava esserci. Oggi non c’è più la scuola. Non c’è più “lu furnu”. Non c’è più nemmeno il marciapiede, dove si consumavano i sogni più grandi dentro conversazioni infinite. Ma c’è ancora un uomo. Uno solo, forse. Che cammina con le mani in tasca e il cuore colmo di malinconia. Uno che guarda i rovi mangiarsi la vigna, ma dentro di sé vede ancora la luce. Questa è la tragedia vera: non è la morte, è l’oblio. Io sono figlio di questa terra. Io sono figlio di Roccaforte del Greco. E mentre cammino tra i suoi silenzi, capisco che non si muore solo quando il corpo cessa. Si muore quando nessuno ricorda più. Quando la nostalgia resta l’ultimo custode di un popolo. Ma finché qualcuno scriverà queste parole, finché ci sarà anche solo una voce a raccontare, allora Roccaforte non sarà finita. Non ancora. Luigi Palamara Tutti I diritti riservati Dipinto di Luigi Palamara #roccafortedelgreco #aspromonte #luigipalamara #palamaraluigi #luispal #luipal #lupa #editoriale ♬ เสียงต้นฉบับ - 🐬🤘Jeen Kawin♏🌹🐬
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