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SANITÀ IN CALABRIA — Il funerale della speranza (con medici cubani al seguito)

SANITÀ IN CALABRIA — Il funerale della speranza (con medici cubani al seguito)
Editoriale di Luigi Palamara

In Calabria, la sanità non è un malato da rianimare. È un cadavere che si rifiuta di essere seppellito. Un morto che cammina tra le corsie degli ospedali, tra i corridoi dei Pronto Soccorso, tra i referti che non arrivano, le ambulanze che non partono, i medici che emigrano e quelli che, arrivati da Cuba, fuggono.

Qui la medicina si fa con la pazienza dei santi e l’indifferenza dei dannati.
Il GOM di Reggio Calabria? Un girone dell’inferno. Un girone dove non si scontano peccati ma solo povertà, abbandono e disperazione. Centinaia di anime ammassate, di giorno e di notte, nell’attesa eterna non del giudizio divino, ma di una visita accurata e rapida, di un lettino libero, di una diagnosi non rimandata a 10 ore di attesa e ammassati come animali.

La verità è che la Calabria non è solo ultima nelle classifiche sanitarie. È ultima nella considerazione politica, nell'attenzione mediatica, nel senso di colpa di uno Stato che, pur sapendo, ha scelto il silenzio come cura.

Ci hanno venduto l’operazione dei medici cubani come la trovata geniale dell’ultimo dei governatori: Roberto Occhiuto. L’hanno chiamata cooperazione. Sembrava un gesto di generosità globale. Ma si è rivelata ben presto un’operazione di maquillage. Un cerotto su una carne in cancrena. Un comunicato stampa vestito da speranza.

Definiamo questa narrazione per quello che è: una colossale presa in giro. In Italia e soprattutto in Calabria si fa politica con le parole e non con i fatti. E in Calabria, più che altrove, i fatti sono tumori lasciati crescere senza diagnosi.

Il flop caraibico è solo l’ultima tappa di un declino che dura da trent’anni. I medici cubani scappano. Alcuni verso la Spagna, altri verso le cliniche private. Altri ancora semplicemente spariscono, inghiottiti da una rete di contratti opachi e stipendi da fame.
Si dice che guadagnino 4.700 euro lordi al mese. Eppure, documenti alla mano, ne percepiscono solo 6,68 euro l’ora. Il resto? Finisce altrove. A Cuba, certo, ma anche in quella rete di mediazioni, società interinali e “agenzie” che odorano più di traffico che di cooperazione.

E mentre i cubani fuggono, i medici italiani non tornano. I concorsi restano deserti. I giovani fuggono prima ancora di laurearsi. Berlino, Lione, persino Bucarest sembrano più civili di Catanzaro o Crotone o Reggio Calabria. Perché? Perché in Calabria, anche la vocazione si ammala. E muore.

Chi ci guadagna da tutto questo?
Chi lucra sulle convenzioni private, chi ha trasformato il disservizio pubblico in affare. Chi piange davanti ai microfoni e intanto firma proroghe e appalti. Chi parla di “emergenza” per legittimare il proprio immobilismo cronico.
I miliardi ci sono. Eccome se ci sono. Ma finiscono nei buchi neri della burocrazia, nei cassetti dei soliti noti, nei meandri delle Asp commissariate che producono atti ma non salute.

La verità è una sola: nessuno vuole veramente cambiare le cose.
Si fanno palliativi, mai terapie. Si mettono toppe, mai si riscrive il tessuto. Si finge di agire, si proclama, si twitta, si inaugura. E intanto la gente muore. Muore a casa, per infarti non curati. Muore in ospedale, su barelle che sembrano letti di tortura. Muore dentro, quando capisce che qui la sanità è un diritto che si compra — se puoi — o si elemosina — se non puoi.

Il commissariamento della sanità calabrese è un fallimento. Ma nessuno pagherà per questo. Perché la responsabilità, in Italia, è un concetto astratto. E in Calabria, è un optional.

Ci vorrebbe uno scatto di orgoglio. Un colpo di reni morale. Una rivoluzione culturale prima che sanitaria.
Ma non si può fare rivoluzione senza coraggio.
E in Calabria, il coraggio ha messo il cappotto e se n’è andato.

Serve un’Italia meno retorica. Più concreta. Serve uno Stato che si comporti da Stato. Che investa in medici, in strutture, in formazione. Che spazzi via i parassiti, i corrotti, i mediocri. Serve meritocrazia, legalità, e soprattutto, verità.

Serve, insomma, quello che oggi manca: vergogna.
La vergogna di chi ha trasformato un diritto costituzionale in un lusso.
La vergogna di chi ha sepolto la salute pubblica sotto il tappeto dell’indifferenza.
La vergogna di chi, ogni giorno, promette salvezza mentre consegna agonia.

Fino a quando?
Fino a quando l’ultimo medico — italiano, cubano o marziano — chiuderà la porta, si toglierà il camice, e dirà: “Qui non si cura più. Qui si condanna”.

Luigi Palamara

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