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La storia di Giuseppe Trubia: quando la giustizia rischia di tradire se stessa

La storia di Giuseppe Trubia: quando la giustizia rischia di tradire se stessa

DIRITTO AL PUNTO INSIEME AGLI AVVOCATI GIACOMO IARIA E ANTONELLA MODAFFARI

Lui è un uomo di Pietraperzia, in Sicilia, che per undici anni e quattro mesi avrebbe dovuto marcire ancora in carcere. Si chiama Giuseppe Trubia. La sua colpa? Aver fatto due viaggi in Calabria.

Non trasportava armi. Non contrattava droga. Accompagnava la moglie malata da un medico a Melito di Porto Salvo. Ma in un Paese dove la fretta delle indagini si somma alla superficialità dei giudizi, quei due viaggi divennero viaggi di droga. Così stabilirono le intercettazioni, così dissero i processi di primo e secondo grado.

E così Trubia fu condannato.
Ora, se non ci fosse stato il terzo grado di giudizio – la Cassazione – oggi quell’uomo sarebbe in galera. E con lui la sua famiglia: una moglie malata, un figlio in sedia a rotelle, altri figli fragili. Un’intera esistenza macellata dall’ingranaggio della giustizia.

Ma per fortuna ci sono stati i due avvocati – Giacomo Iaria e Antonella Modaffari – che non si sono arresi. Hanno messo davanti ai giudici la verità: referti medici, certificati, prove concrete. E finalmente qualcuno, a Roma, aprì gli occhi. La Cassazione annullò, il processo tornò a Caltanissetta e la condanna venne cancellata.

Una coincidenza diabolica
Il calvario di Trubia insegna che un errore giudiziario non nasce sempre dal dolo. A volte è una coincidenza diabolica. A volte è la pigrizia intellettuale di chi indaga. A volte è la presunzione di chi giudica. Due viaggi diventano prova di un’associazione mafiosa. Un referto medico diventa carta straccia. E un uomo innocente diventa colpevole.

Se non fosse stato per il terzo grado, oggi racconteremmo la storia di un detenuto che grida alla sua innocenza, come tanti. Invece raccontiamo la storia di un uomo salvato. Ma la domanda resta: quanti Trubia non hanno avuto la stessa sorte?

La partita persa della giustizia.
In aula, quando arrivò la sentenza di assoluzione, il figlio di Trubia – in carrozzina – pianse. Pianse come un uomo che ha visto il padre uscire da un incubo. Pianse come piangono i figli che vedono restituita la dignità di una famiglia.

Ma la verità è che non ha vinto Trubia. Non hanno vinto neppure i suoi avvocati. Ha perso la giustizia. Perché la giustizia vera non dovrebbe affidarsi alla fortuna di trovare un giudice più attento. Non dovrebbe correggersi al terzo grado. Dovrebbe fermarsi prima, al primo, al secondo, quando un certificato medico basta a dimostrare l’innocenza.

Una ferita aperta
Questa non è la storia di un uomo assolto. È la storia di un sistema che ha mostrato la sua fragilità. Un sistema che può sbagliare, e sbagliare pesantemente, sulle vite delle persone.

È facile dire “giustizia è fatta” quando arriva la liberazione. Ma la verità è che la giustizia non è fatta: è ferita. E ogni volta che un innocente rischia la galera, lo Stato perde credibilità, il cittadino perde fiducia, la società perde equilibrio.

E così Giuseppe Trubia è tornato libero. Ma non è una vittoria della giustizia: è una sua sconfitta. Perché la giustizia, quella vera, non ha bisogno di tre gradi per distinguere due viaggi di cura da due viaggi di droga.

La morale è semplice e crudele insieme: se Trubia è salvo, lo deve più alla tenacia di due avvocati – Giacomo Iaria e Antonella Modaffari – che al sistema. E questo dovrebbe bastare a farci riflettere.

Perché in Italia la giustizia non è soltanto lenta. È soprattutto distratta. E quando la giustizia si distrae, non perde un imputato, non perde un processo: perde se stessa.

Luigi Palamara Tutti I diritti riservati 

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Giuseppe Trubia. La sua storia

♬ suono originale - Luigi Palamara

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