Libertà è dire io. Anche in un editoriale.
Editoriale di Luigi Palamara
Scrivo come giornalista? Sì. Scrivo come uomo? Anche. E chi ha deciso che le due cose si escludano? Da quando l’essere giornalisti impone la rinuncia alla carne, al sangue, al fegato? Mi si perdoni l’impazienza – o non perdonatemela affatto, non importa – ma a forza di sentire litanie sull’imparzialità, sull’oggettività, sull’assenza di opinione, mi viene il sospetto che il giornalismo, più che informare, voglia anestetizzare.
L’editoriale non è un bollettino. Non è una nota ministeriale. È una voce. La mia, la tua, la nostra. È un uomo – o una donna, e Dio sa quanto le donne scrivono con più coraggio – che prende la penna o batte su una tastiera e dice: “Ecco cosa penso. Prendilo, contestalo, sbranalo se vuoi. Ma non pretendere che io stia zitto.”
Perché, vedete, la pretesa di neutralità è la più subdola delle bugie. È la foglia di fico dietro cui si nasconde la pavidità, o peggio: la complicità. Dire la verità è un atto di parte. Sempre. E se qualcuno vi dice il contrario, vi sta vendendo un’illusione, magari confezionata bene, magari con parole pettinate, ma pur sempre illusione è.
Io dico basta. Basta con l’ipocrisia dell’“equilibrato”, del “terzo punto di vista”. Perché c’è un momento in cui tacere è mentire. E scrivere senza esporsi è il modo peggiore di tradire il lettore. O lo spettatore. O chiunque abbia ancora il coraggio di cercare una voce e non un algoritmo.
Non mi vergogno di avere opinioni. Non ho paura di difenderle. Perché questo significa scrivere. Questo significa essere liberi. E Dio benedica chi ancora lo fa.
Luigi Palamara Tutti I diritti riservati
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