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Libertà è dire quello che da fastidio. Meglio solo che servo.

Libertà è  dire quello che da fastidio.
Meglio solo che servo.

Editoriale di Luigi Palamara – Un cittadino stanco


Il giornalista che racconta la politica non ha amici. E non deve averne. Perché il giornalista vero è solo. È un mestiere ingrato, impopolare, persino pericoloso. Ma è anche – lasciatemelo dire – uno dei pochi mestieri che ancora conservano un profumo di libertà. Di quella libertà ruvida, che non si indossa come una spilletta sul bavero ma si sconta sulla pelle, giorno dopo giorno, con la solitudine, con le minacce, con l’incomprensione.

Non imparzialità, ma credibilità. Non servilismo, ma rigore. Non pacche sulle spalle, ma colpi allo stomaco, che scuotano il lettore e lo obblighino a pensare, anche se controvoglia. Non siamo qui per fare amicizia, ma per onorare un debito: quello con la verità, con la coscienza e con la memoria. La verità non è neutra. E spesso non è comoda. Ma è l’unica cosa che rende questo mestiere degno.

In Italia, in Calabria a Reggio Calabria,  dire la verità è un atto rivoluzionario. Qui ognuno tira per la sua parrocchia, la sua cricca, il suo giro di potere. Qui l’onestà intellettuale è vista come un vezzo pericoloso, e il giornalista indipendente è più temuto del giudice, più odiato del politico traditore. Perché il giornalista non comanda, non assolve, non condanna. Racconta. E per questo dà fastidio.

La libertà di chi racconta è inclassificabile. È un cane sciolto. Non accetta padrini, né padroni. Chi mi legge non deve farlo perché la pensa come me. Al contrario. Mi si legga per confronto, per attrito, per quella scintilla che scocca solo tra menti che non si temono. Il dissenso non è una minaccia, è l’inizio del dialogo. E chi si nutre solo di opinioni uguali alle proprie, ha già smesso di pensare.

E allora vi dico: Scendete in piazza, se avete ancora il coraggio. Ma scendete davvero. Non con un tweet, non con un post indignato. Quelle sono carezze all’anima. Servono pugni, non carezze. Serve presenza. Carne. Sguardi. La politica è sudore. È scontro. È verità urlata in faccia, non digitata in silenzio.

In Italia esiste un sistema. E non è una favola cospirazionista. È fatto di pacchetti di voti, accordi sotto banco, nomine distribuite nei salotti buoni come si spartisce il dessert a fine cena. Lo sanno tutti. Ma nessuno lo dice. O meglio: lo dicono in pochi. Perché dire certe cose ha un costo. Ma io non ho più debiti da saldare. Solo promesse da mantenere.

Il cambiamento non nasce nei talk show. Nasce nei bar dove il caffè è aumentato e la gente bestemmia. Nasce nei vicoli dove i bambini giocano senza scuole né futuro. Nasce nelle sezioni di partito abbandonate, che una volta erano fucine di pensiero e oggi vendono cover per cellulari.

Nel 2018, il Movimento 5 Stelle accese una fiammata. Breve, confusa, ma reale. Mostrò che si può rompere l’incantesimo. Che la rabbia organizzata è forza politica. Poi si sono persi. Ma hanno lasciato una traccia. Una possibilità.

E oggi? Oggi la politica è una diretta su Instagram. Un sorriso finto, una luce ring, una caption studiata da uno stagista. Ma il Paese vero non ha filtri. Non è fotogenico. Il Paese vero è la madre sola, il pensionato al minimo, il giovane che scappa, il disoccupato che non crede più a nessuno.

La libertà, amici miei, è scomoda. È impopolare. È sporca. Ma è l’unico bene che vale la pena difendere. E oggi non è in vendita. È sotto attacco.

Chi vuole cambiarlo, questo Paese, deve sporcarsi le mani. E le scarpe. Deve scendere in strada, dove si sente l’odore del fallimento e della speranza. Deve parlare con chi non ha voce.

Perché la storia, quella vera, non la scrivono i salotti. La scrive chi ha il coraggio di non piegarsi. Di non tacere. Di restare solo, se serve. Ma libero.

Luigi Palamara
Un cittadino stanco, ma non arreso.

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