I motociclisti dal cuore feroce e gentile
L'Editoriale di Luigi Palamara
A prima vista, fanno paura. Giubbotti di pelle, barbe ispide, tatuaggi che gridano sfida al mondo. Sono i bikers, gli ultimi eredi di una stirpe ribelle, nutrita di asfalto e rombi di motore. Gente che, nell’immaginario collettivo, appartiene alla geografia della devianza: bande di marginali, canne e birra, sguardi torvi sotto il casco nero. È la caricatura che la società borghese si è cucita addosso per non dover capire.
Eppure, sotto quella corazza di pelle, batte un cuore che sa diventare più feroce — e più gentile — di qualunque luogo comune. Lo dimostra la presenza, a Piazza Italia, del chapter reggino di B.A.C.A. (Bikers Against Child Abuse): motociclisti che hanno scelto di mettere la loro immagine dura al servizio dei più fragili. Bambini abusati, traditi da chi avrebbe dovuto proteggerli.
L’idea, nata in America nel ’95 da uno psicoterapeuta, è tanto semplice quanto geniale: se un bambino teme il suo carnefice, allora occorre che ci sia qualcuno che faccia più paura di lui. E chi meglio di un biker, col rombo del motore e il giubbotto da guerra, può incarnare questa presenza rassicurante e spaventosa al tempo stesso? Una guardia del corpo simbolica, una famiglia che non tradisce.
In Italia, dove spesso le burocrazie soffocano prima ancora che le idee possano respirare, questi uomini hanno saputo radicarsi. Hanno trovato sponde istituzionali in figure come Antonio Marziale ed Emanuele Mattia, ma soprattutto hanno trovato un popolo: quello dei motociclisti che credono ancora in parole come lealtà, rispetto, fratellanza. Virtù elementari, che a quei bambini sono state negate nel modo più atroce.
Non bisogna farsi illusioni: qui non si tratta di animare feste di piazza o di offrire un giro in moto. Il gesto ha un peso pedagogico. Quando un bambino indossa il suo gilet, quando riceve il suo “road name”, non riceve un balocco ma un’identità. Viene trattato da pari, non da scarto. E in quel momento capisce che la vita può ancora concedergli una scelta, forse la prima davvero libera.
Ci sarebbe da chiedersi, allora, chi sia davvero il “delinquente”. Se il motociclista che infrange con la sua Harley il silenzio delle nostre domeniche, o il rispettabile genitore, il maestro, lo zio che abusa di un minore nel chiuso delle mura domestiche. La risposta, se abbiamo il coraggio di guardarla in faccia, è brutale.
Per questo iniziative come quella di B.A.C.A. meritano più che un plauso: meritano rispetto. Non tanto per il folklore del rombo e del giubbotto, ma perché ricordano a una società ipocrita che la forza, se guidata dall’etica, diventa protezione.
I bambini, quelli sì, li abbiamo traditi troppe volte. Se oggi a difenderli arrivano uomini e donne che hanno scelto la strada e la moto come simboli di libertà, non dobbiamo riderne né guardare con sospetto. Dobbiamo, semmai, ringraziare.
E allora, come dicono loro: One B.A.C.A.. Perché una sola basta, se fa tremare i carnefici e ridare speranza ai piccoli.
Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati
Reggio Calabria 14 settembre 2025
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@luigi.palamara I motociclisti dal cuore feroce e gentile L'Editoriale di Luigi Palamara A prima vista, fanno paura. Giubbotti di pelle, barbe ispide, tatuaggi che gridano sfida al mondo. Sono i bikers, gli ultimi eredi di una stirpe ribelle, nutrita di asfalto e rombi di motore. Gente che, nell’immaginario collettivo, appartiene alla geografia della devianza: bande di marginali, canne e birra, sguardi torvi sotto il casco nero. È la caricatura che la società borghese si è cucita addosso per non dover capire. Eppure, sotto quella corazza di pelle, batte un cuore che sa diventare più feroce — e più gentile — di qualunque luogo comune. Lo dimostra la presenza, a Piazza Italia, del chapter reggino di B.A.C.A. (Bikers Against Child Abuse): motociclisti che hanno scelto di mettere la loro immagine dura al servizio dei più fragili. Bambini abusati, traditi da chi avrebbe dovuto proteggerli. L’idea, nata in America nel ’95 da uno psicoterapeuta, è tanto semplice quanto geniale: se un bambino teme il suo carnefice, allora occorre che ci sia qualcuno che faccia più paura di lui. E chi meglio di un biker, col rombo del motore e il giubbotto da guerra, può incarnare questa presenza rassicurante e spaventosa al tempo stesso? Una guardia del corpo simbolica, una famiglia che non tradisce. In Italia, dove spesso le burocrazie soffocano prima ancora che le idee possano respirare, questi uomini hanno saputo radicarsi. Hanno trovato sponde istituzionali in figure come Antonio Marziale ed Emanuele Mattia, ma soprattutto hanno trovato un popolo: quello dei motociclisti che credono ancora in parole come lealtà, rispetto, fratellanza. Virtù elementari, che a quei bambini sono state negate nel modo più atroce. Non bisogna farsi illusioni: qui non si tratta di animare feste di piazza o di offrire un giro in moto. Il gesto ha un peso pedagogico. Quando un bambino indossa il suo gilet, quando riceve il suo “road name”, non riceve un balocco ma un’identità. Viene trattato da pari, non da scarto. E in quel momento capisce che la vita può ancora concedergli una scelta, forse la prima davvero libera. Ci sarebbe da chiedersi, allora, chi sia davvero il “delinquente”. Se il motociclista che infrange con la sua Harley il silenzio delle nostre domeniche, o il rispettabile genitore, il maestro, lo zio che abusa di un minore nel chiuso delle mura domestiche. La risposta, se abbiamo il coraggio di guardarla in faccia, è brutale. Per questo iniziative come quella di B.A.C.A. meritano più che un plauso: meritano rispetto. Non tanto per il folklore del rombo e del giubbotto, ma perché ricordano a una società ipocrita che la forza, se guidata dall’etica, diventa protezione. I bambini, quelli sì, li abbiamo traditi troppe volte. Se oggi a difenderli arrivano uomini e donne che hanno scelto la strada e la moto come simboli di libertà, non dobbiamo riderne né guardare con sospetto. Dobbiamo, semmai, ringraziare. E allora, come dicono loro: One B.A.C.A.. Perché una sola basta, se fa tremare i carnefici e ridare speranza ai piccoli. Luigi Palamara Tutti i diritti riservati Reggio Calabria 14 settembre 2025 #baca #motociclisti #reggiocalabria #editoriale #luigipalamara ♬ Bed of Roses - yourmusic4ever💯
@luigi.palamara I motociclisti dal cuore feroce e gentile L'Editoriale di Luigi Palamara A prima vista, fanno paura. Giubbotti di pelle, barbe ispide, tatuaggi che gridano sfida al mondo. Sono i bikers, gli ultimi eredi di una stirpe ribelle, nutrita di asfalto e rombi di motore. Gente che, nell’immaginario collettivo, appartiene alla geografia della devianza: bande di marginali, canne e birra, sguardi torvi sotto il casco nero. È la caricatura che la società borghese si è cucita addosso per non dover capire. Eppure, sotto quella corazza di pelle, batte un cuore che sa diventare più feroce — e più gentile — di qualunque luogo comune. Lo dimostra la presenza, a Piazza Italia, del chapter reggino di B.A.C.A. (Bikers Against Child Abuse): motociclisti che hanno scelto di mettere la loro immagine dura al servizio dei più fragili. Bambini abusati, traditi da chi avrebbe dovuto proteggerli. L’idea, nata in America nel ’95 da uno psicoterapeuta, è tanto semplice quanto geniale: se un bambino teme il suo carnefice, allora occorre che ci sia qualcuno che faccia più paura di lui. E chi meglio di un biker, col rombo del motore e il giubbotto da guerra, può incarnare questa presenza rassicurante e spaventosa al tempo stesso? Una guardia del corpo simbolica, una famiglia che non tradisce. In Italia, dove spesso le burocrazie soffocano prima ancora che le idee possano respirare, questi uomini hanno saputo radicarsi. Hanno trovato sponde istituzionali in figure come Antonio Marziale ed Emanuele Mattia, ma soprattutto hanno trovato un popolo: quello dei motociclisti che credono ancora in parole come lealtà, rispetto, fratellanza. Virtù elementari, che a quei bambini sono state negate nel modo più atroce. Non bisogna farsi illusioni: qui non si tratta di animare feste di piazza o di offrire un giro in moto. Il gesto ha un peso pedagogico. Quando un bambino indossa il suo gilet, quando riceve il suo “road name”, non riceve un balocco ma un’identità. Viene trattato da pari, non da scarto. E in quel momento capisce che la vita può ancora concedergli una scelta, forse la prima davvero libera. Ci sarebbe da chiedersi, allora, chi sia davvero il “delinquente”. Se il motociclista che infrangeI motociclisti dal cuore feroce e gentile L'Editoriale di Luigi Palamara A prima vista, fanno paura. Giubbotti di pelle, barbe ispide, tatuaggi che gridano sfida al mondo. Sono i bikers, gli ultimi eredi di una stirpe ribelle, nutrita di asfalto e rombi di motore. Gente che, nell’immaginario collettivo, appartiene alla geografia della devianza: bande di marginali, canne e birra, sguardi torvi sotto il casco nero. È la caricatura che la società borghese si è cucita addosso per non dover capire. Eppure, sotto quella corazza di pelle, batte un cuore che sa diventare più feroce — e più gentile — di qualunque luogo comune. Lo dimostra la presenza, a Piazza Italia, del chapter reggino di B.A.C.A. (Bikers Against Child Abuse): motociclisti che hanno scelto di mettere la loro immagine dura al servizio dei più fragili. Bambini abusati, traditi da chi avrebbe dovuto proteggerli. L’idea, nata in America nel ’95 da uno psicoterapeuta, è tanto semplice quanto geniale: se un bambino teme il suo carnefice, allora occorre che ci sia qualcuno che faccia più paura di lui. E chi meglio di un biker, col rombo del motore e il giubbotto da guerra, può incarnare questa presenza rassicurante e spaventosa al tempo stesso? Una guardia del corpo simbolica, una famiglia che non tradisce. In Italia, dove spesso le burocrazie soffocano prima ancora che le idee possano respirare, questi uomini hanno saputo radicarsi. Hanno trovato sponde istituzionali in figure come Antonio Marziale ed Emanuele Mattia, ma soprattutto hanno trovato un popolo: quello dei motociclisti che credono ancora in parole come lealtà, rispetto, fratellanza. Virtù elementari, che a quei bambini sono state negate nel modo più atroce. Non bisogna farsi illusioni: qui non si tratta di animare feste di piazza o di offrire un giro in moto. Il gesto ha un
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