Il tappeto rosso di Porro a Occhiuto: un’intervista senza domande.
L'Editoriale di Luigi Palamara
Davanti a certe interviste, il telespettatore non sa se indignarsi o sbadigliare. Davanti a Nicola Porro, che su Rete 4 ha prestato il volto e la voce a Roberto Occhiuto, si è avuto lo spettacolo consueto: domande che non interrogano, ma servono da sgabello; repliche che non rispondono, ma recitano un rosario di autocelebrazione.
La prima domanda, già di per sé, era la resa del giornalismo: “Perché dimettersi e ricandidarsi? L’inchiesta della magistratura ha influito?” Tradotto: prego Presidente, si accomodi, giustifichi le sue scelte senza timore, noi siamo qui ad annuire. Nessuna incalzatura, nessuna ricerca di contraddizioni. Solo il tappeto rosso.
E Occhiuto, da parte sua, ha colto la palla al balzo: “L’interrogatorio è andato molto bene”, ha detto. Ma bene per chi? Per lui che si sente assolto a prescindere, o per i cittadini che da trent’anni vedono presidenti finire nel tritacarne giudiziario? La verità è che se un politico misura la bontà di un interrogatorio dal grado di sollievo personale, allora la giustizia si riduce a una faccenda privata, non pubblica.
Il resto è stato un campionario di frasi fatte. “Girando per strada, i calabresi mi dicevano: Presidente, non molli”. La classica evocazione del popolo, quello che in queste narrazioni anonime parla sempre come un coro greco, plaudente e unanime. Ma di quale popolo si parla? Quello che emigra in massa? Quello che aspetta mesi per una visita medica in una sanità commissariata da 15 anni?
E ancora, Porro, con voce melliflua: “L’opposizione fa il suo mestiere… qual è il vero problema secondo lei?” Una domanda che già regala la cornice, che già prepara la via di fuga: il problema non è mai nel governo, mai in chi decide, ma sempre in chi si oppone. È il giornalismo ridotto a massaggio rilassante, non a frustata di realtà.
Occhiuto, dal canto suo, si erge a martire politico: presidente “azzoppato” da una macchina amministrativa che non lo riconosceva più. Non una parola, però, sul perché quella macchina fosse già da tempo arrugginita, inceppata, corrotta. Sempre colpa di altri, mai responsabilità propria.
E l’apoteosi finale: “Speculare sulle inchieste giudiziarie in un paese civile non è corretto.” Certo, peccato che l’Italia non sia mai stata un paese civile in questo senso, e che proprio i politici, da destra a sinistra, abbiano fatto della speculazione giudiziaria un’arma di distruzione reciproca. Ma lui no, lui è puro, lui vincerà “col 60%”. A sentire queste certezze, viene in mente più un venditore di piazza che un uomo delle istituzioni.
E così restiamo al punto di partenza: un presidente che parla a se stesso e un giornalista che prende appunti per fargli eco. In Calabria non si è capito se governi la politica o la sceneggiata. Ma una cosa è chiara: quando la stampa rinuncia a fare domande, il potere smette di dare risposte.
Luigi Palamara Tutti i diritti riservati Reggio Calabria 2 settembre 2025
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