Dante, il più grande giornalista di sempre
L'Editoriale di Luigi Palamara
Chi pensa che il giornalismo sia cronaca, mestiere di penna e taccuino.
Sbaglia. Il giornalismo, quello vero, è un atto di coraggio.
E allora sì, Dante Alighieri — il poeta, il fiorentino esiliato, il visionario — è stato il più grande giornalista di sempre.
Perché ha fatto ciò che ogni giornalista dovrebbe fare e quasi nessuno fa più:
ha visto l’inferno e ha avuto il coraggio di raccontarlo.
Senza padroni, senza editori, senza la paura di offendere i potenti del suo tempo.
Ha descritto vizi, corruzioni, inganni e santità con la precisione di un cronista e la furia di un uomo libero.
Ha dato nomi e cognomi — e non pseudonimi — ai peccatori che il potere avrebbe voluto nascondere.
Oggi, invece, viviamo l’epoca del giornalismo con il guinzaglio.
Cagnolini di redazione che corrono a riportare il frisbee al padrone di turno,
giornalisti di parte, giornalisti di comodo, giornalisti di palazzo.
E lettori che non leggono, ma tifano:
non cercano la verità, cercano conferme.
Il giornale come specchio narcisista della propria opinione.
È così che muore la libertà di pensiero: non per censura, ma per compiacimento.
Dante no.
Dante non si è mai compiaciuto.
È sceso all’Inferno, ha guardato in faccia i dannati e li ha raccontati.
E quando ha avuto paura, ha chiesto consiglio a un antenato — come ricorda Italo Falcomatà — temendo le rappresaglie degli uomini, non quelle di Dio.
Perché chi dice la verità non teme il fuoco, ma l’indifferenza.
Noi giornalisti, oggi, avremmo bisogno di un po’ di quell’Inferno dantesco.
Per ricordarci che la verità non è un contratto pubblicitario, né una linea editoriale.
È una vocazione. Una condanna. Un dovere morale.
E se la stampa è davvero il cane da guardia della democrazia, allora dovremmo tornare a ringhiare, non a scodinzolare.
Dovremmo riprendere in mano la penna come faceva Dante:
non per piacere, ma per ferire la menzogna.
Perché il giornalismo, come la Divina Commedia, non serve a consolare.
Serve a salvare.
E a ricordarci che ogni parola — se è vera — è già una rivoluzione.
Abstract da Il Castello dei sogni incantati di Luigi Palamara
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