Il Giornalismo tradito

Il Giornalismo tradito
L'Editoriale di Luigi Palamara


C’è voluta una bomba, sì, una bomba contro Sigfrido Ranucci, per ricordarci che il giornalismo non è un mestiere come gli altri. È una missione. O almeno lo era.
Oggi, invece, è una professione dimenticata, svilita, umiliata.

Per decenni lo abbiamo chiamato “il cane da guardia della democrazia”. Oggi, quel cane è stato addomesticato. Gli hanno tolto i denti, lo tengono al guinzaglio corto, e quando osa abbaiare — se osa — gli danno del disturbatore, del sovversivo, o, peggio, del romantico fuori tempo.

Il potere ha vinto la sua guerra più silenziosa e più efficace: quella contro la verità.
E non l’ha vinta con i carri armati, ma con i microfoni, con i talk show, con la pubblicità.
Ha trasformato i giornalisti in impiegati, i direttori in amministratori, le redazioni in aziende.
E così, piano piano, il giornalismo — quello vero, quello che nasceva dalla polvere delle strade e non dai comunicati stampa — si è estinto.

Ora viviamo in un mondo dove l’informazione è un’eco, non una voce. Dove la notizia non si cerca: si compra, si confeziona, si vende.
E chi non si adegua, chi prova ancora a scavare, a fare domande scomode, diventa un bersaglio.
Nella migliore delle ipotesi, lo ignorano. Nella peggiore, lo minacciano.

Eppure, nessuna democrazia sopravvive senza giornalismo.
Perché senza giornalisti liberi, il potere non ha più specchi, solo megafoni.
E un Paese che perde la verità, prima o poi, perde anche la libertà.

La tecnologia, l’intelligenza artificiale, i social network: strumenti straordinari, certo. Ma nelle mani sbagliate — o nelle menti pigre — sono diventati trappole.
Oggi non è più difficile raccontare la verità: è difficile riconoscerla.

La bomba a Ranucci non è solo un atto vile. È un segnale.
Ci dice che il giornalismo, quello autentico, fa ancora paura.
E finché farà paura, ci sarà speranza.

Perché finché ci sarà qualcuno disposto a rischiare per raccontare ciò che gli altri vogliono nascondere, la verità — seppur ferita, seppur insanguinata — non morirà mai.

Luigi Palamara
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