Il ponte dei sogni (e degli inganni).

Il ponte dei sogni (e degli inganni).
L'Editoriale di Luigi Palamara


Ogni volta che si torna a parlare del Ponte sullo Stretto, l’Italia sembra rimettere in scena il suo dramma preferito: l’eterna commedia delle illusioni.
Un progetto che da decenni galleggia tra l’ingegneria e la metafisica, tra la promessa e la propaganda.
Ora, come un vecchio disco che nessuno ha il coraggio di togliere dal giradischi, torna a girare la stessa musica: annunci, conferenze stampa, entusiasmi pilotati. E poi, puntuale, il “freno” della Corte dei Conti.

La vicenda di questi giorni – con la richiesta di deferimento sul via libera del Cipess – non è che l’ennesimo capitolo di un copione già scritto: la realtà che smentisce l’ottimismo di maniera.
A ricordarlo, con toni che sanno di esasperazione e di buonsenso, è il segretario messinese del Pd, Armando Hyerace.
Le sue parole colpiscono più per la semplicità che per la retorica: “Si smetta di inseguire questa chimera, di vendere illusioni e di usare il ponte come arma di propaganda.”
Già, propaganda.
È da mezzo secolo che il Ponte sullo Stretto viene venduto come il miracolo che cambierà la Sicilia, la Calabria, l’Italia intera.
Ma il miracolo, per ora, è che se ne parli ancora.

Nel frattempo, la società Webuild – che sembra vivere in un tempo parallelo, dove il progetto è già realtà – annuncia migliaia di assunzioni.
Un gesto che sa di teatro più che di cantiere: si gioca con la fame di lavoro di un Sud esausto, con la speranza di chi, davanti a uno stipendio, chiuderebbe volentieri un occhio su tutto il resto.
È questo il punto più doloroso, e forse il più cinico, dell’intera faccenda: la politica che, non potendo dare risposte, vende sogni in appalto.

La Corte dei Conti, nel suo linguaggio asciutto e burocratico, ha soltanto ricordato ciò che chiunque, in buona fede, sa da tempo: il progetto è fragile, confuso, economicamente incerto.
Ma guai a dirlo: si rischia di passare per nemici del progresso.
Come se il progresso fosse un ponte sospeso nel vuoto, e non una rete di treni che funzionano, di strade che non crollano, di ospedali che curano, di scuole che insegnano.

C’è qualcosa di tragicomico nel vedere l’Italia che si divide su un’opera che non esiste, mentre restano deserte le discussioni su ciò che esiste davvero: la disoccupazione, il dissesto, le carenze infrastrutturali, i giovani che partono e non tornano più.
È più facile progettare un ponte verso il futuro che costruire un Paese degno di attraversarlo.

Forse ha ragione ragione chi dice che “gli italiani sono capaci di tutto, tranne che di essere seri”.
E hanno ragione coloro quando parlano di “un’Italia che si accontenta delle parole, come un popolo che si nutre di aria”.

Il Ponte sullo Stretto, oggi, è questo: un simbolo perfetto di un’Italia che sogna in grande ma agisce in piccolo.
Che annuncia cantieri mentre affonda nei suoi ritardi.
Che parla di futuro mentre dimentica il presente.

E allora sì, forse serve davvero un ponte.
Ma non tra le due sponde dello Stretto: tra la realtà e la verità.

Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati
Reggio Calabria 25 ottobre 2025

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