Il ritorno a Roccaforte del Greco
di Luigi Palamara
L'autobus correva lento tra le curve a gomito dell’Aspromonte, e il fumo grigio che usciva dalla marmitta si disperdeva nell’aria limpida del mattino.
Era da molti anni che non tornavo a Roccaforte. Le case del paese mi erano rimaste nel cuore come pietre bianche che brillano nella memoria.
Ora, a Natale, avevo deciso di tornare, senza sapere bene perché. Forse per ritrovare mia madre, che non c’era più, o forse per capire se qualcosa di noi fosse rimasto tra quelle strade silenziose.
Salii la strada che conduceva alla piazza. Il vento portava l’odore della montagna e del camino spento.
Le porte erano chiuse, le finestre oscurate.
Il paese sembrava dormire dentro se stesso, come un vecchio stanco che non attende più nessuno.
Mi fermai davanti alla casa dove ero nato. I muri portavano le stesse crepe di allora, solo più larghe.
Sulla soglia, una lucertola si scaldava al sole d’inverno.
Mi sembrò di rivedere la mia mamma, Angelina, seduta là, con lo scialle colorato e lo sguardo attento a ogni cosa.
“Ricòrdati, figliolo,” mi diceva, “senza cenere nel focolare la casa muore.”
Allora non capivo. Adesso sì: il fuoco era la vita, la compagnia, la parola che tiene uniti gli uomini.
Entrai.
L’interno era freddo, eppure mi sembrò di respirare ancora il suo odore: la minestra di lenticchie, il bucato, la legna umida.
Sul tavolo, la tovaglia a fiori che lei usava nei giorni di festa era rimasta lì, ingiallita dal tempo.
Mi sedetti, e per un momento mi parve che tutto potesse tornare com’era.
Fuori, il paese taceva.
Non si sentivano voci di bambini, né il rumore di passi dei vicini, né il canto della fontana in piazza.
Solo il vento scendeva dal monte e faceva sbattere le finestre.
Roccaforte del Greco era rimasta sola con i suoi vecchi.
Ogni volto che incontravo era un ricordo che respirava.
Un uomo mi riconobbe — mi chiamò per nome, come si chiamano i morti.
Parlammo poco. Mi raccontò che i giovani erano partiti, che le case si vendevano per nulla, che il Comune chiudeva la scuola.
Mi disse: “Non è la povertà che ci ha distrutti, ma la solitudine.”
Camminando verso la chiesa, vidi un gruppo di donne sedute al sole.
In silenzio. Una di loro levò lo sguardo e disse: “Tua madre, Dio l’abbia in gloria, pregava sempre per te.”
Mi mancarono le parole.
Era come se tutto il paese custodisse il mio dolore, come una reliquia.
Entrai in chiesa.
Il presepe era piccolo, con le stesse figure di creta che mettevo io da bambino.
Le luci erano fioche, ma la stella brillava ancora, sopra la grotta di cartone.
Mi inginocchiai.
Non chiesi nulla: solo la forza di ricordare.
Uscendo, il cielo era già buio.
La neve cominciava a cadere, lenta, e ogni fiocco sembrava un pensiero che scendeva dal passato.
Mi voltai a guardare le vie vuote, le case addormentate, i camini senza fumo.
Sentii dentro di me che quel silenzio era la voce stessa del paese, una voce antica, piena di amore e di dolore insieme.
Ritornai verso la casa.
Nella tasca dello zaino avevo un fiammifero.
Lo accesi nel camino, per gioco, o forse per fede.
Il fuoco prese piano, come se aspettasse da anni quel gesto.
Le fiamme si alzarono, tremanti, e illuminarono la stanza.
Parve che le pareti respirassero, che i ricordi tornassero vivi.
“Mamma,” dissi piano, “quest’anno il fuoco c’è.”
E mi parve di sentire, nel crepitare della legna, la sua voce che rideva.
Luigi Palamara
Abstract da Il Castello dei sogni incantati
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