La città che vuole imparare
L'Editoriale di Luigi Palamara
Qualcosa di nobile e insieme di disperato prende forma e sostanza nell’idea di una “Learning City”.
Una città che apprende, che prova a capire se stessa dopo aver smarrito la lingua della coscienza civile. Un’utopia gentile, quasi ingenua, in una terra dove ancora si cresce cantando “Viva la ’Ndrangheta”. Eppure, è proprio da qui, da Reggio Calabria, che questa utopia tenta di farsi progetto.
A Palazzo Alvaro, tra aule istituzionali e sguardi di docenti venuti da tutta Italia, si è parlato di devianza e marginalità nelle periferie urbane. Argomento vasto, ma in fondo semplice: il fallimento di una società che ha smesso di educare.
Non è solo questione di povertà o criminalità. È questione di diseducazione collettiva, di una comunità che ha perso il senso del limite e dell’esempio.
Liliosa Azara, docente e anima del progetto “RC efficacy”, ha parlato di una città che apprende, che si fa promotrice di cittadinanza attiva. Parole importanti. Ma le parole, da sole, non bastano. Servono fatti, serve carne viva: la storia di un magistrato, il volto di un bambino, la voce di un insegnante che non si arrende.
Ed ecco Roberto Di Palma, Procuratore dei Minori, che racconta la scena di una bambina di quattro anni che canta “Viva la ’Ndrangheta” davanti al nonno detenuto. Non è solo cronaca, è un atto d’accusa contro tutti noi.
Perché quella bambina non è colpevole: è stata educata così. Qualcuno le ha insegnato che il potere è nella paura, che la legge è nemica, che l’appartenenza vale più della libertà.
Di Palma parla senza enfasi, con quella sobrietà dei servitori dello Stato che hanno visto troppo per credere ancora agli slogan. Dice: “Ogni persona, in un momento della vita, può scegliere”. E qui si sente la voce di un uomo che crede nella libertà come unica forma di salvezza.
C’è un protocollo, nato proprio a Reggio, che allontana i figli dalle famiglie mafiose. Li porta altrove, in altre case, altre regioni, altri mondi.
Un atto coraggioso, e forse l’unico possibile. Perché educare non è punire, ma offrire un’alternativa.
Non tutti ce la fanno, certo. Ma chi anche solo per un giorno respira aria pulita, ha almeno saputo che un altro modo di vivere esiste.
E poi c’è Luciano Gerardis, l’ex Presidente della Corte d’Appello, fondatore di Civitas. Uomo mite ma di una fermezza rara.
Parla come chi ha imparato sulla propria pelle che la giustizia, se non scende tra la gente, resta un altare vuoto.
Ha aperto il Palazzo di Giustizia alla città: tribunali che diventano scuole, giudici che dialogano con studenti, poliziotti che spiegano la scienza invece del timore.
Un gesto simbolico, sì, ma anche un ritorno al principio elementare della Repubblica: la giustizia è un servizio, non un potere.
Gerardis cita la Costituzione come si cita una preghiera laica: “Una delle più belle del mondo”, dice. E ammonisce chi oggi la vuole cambiare “per leggerezza”.
La sua non è nostalgia, ma difesa di un’eredità morale: la solidarietà come dovere, l’umanità come misura del diritto.
E allora, tra le parole di Azara, Di Palma e Gerardis, emerge una verità che brucia: non sono i ragazzi il problema, siamo noi adulti.
Noi, che abbiamo smarrito il pudore di essere esempi. Noi che applaudiamo i vincenti e dimentichiamo i giusti.
Noi che chiediamo ai giovani di credere in una società che non crede più in se stessa.
Reggio Calabria — come tante città italiane — ha bisogno di imparare. Non solo di insegnare, ma di imparare di nuovo.
A fidarsi, a educare, a sbagliare con onestà.
Forse è questa, oggi, la vera rivoluzione: trasformare l’educazione in resistenza civile.
Di Palma lo ha detto con la chiarezza che solo i magistrati del Sud possiedono:
“Prima viene l’uomo, poi lo spazio.”
E in questa frase, più che in mille convegni, c’è tutto ciò che serve per ricominciare.
Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati
Reggio Calabria 21 ottobre 2025
#editoriale #luigipalamara
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