Maria Corina Machado è il Premio Nobel per la pace 2025: la fiamma sotto la cenere.
L'Editoriale di Luigi Palamara
È davvero qualcosa di profondamente ironico — e tragicamente vero — il fatto che oggi, nel 2025, si debba premiare col Nobel per la Pace una donna che vive nascosta. Non perché abbia imbracciato un fucile, ma perché ha osato dire che la libertà non si mendica. La si pretende.
Maria Corina Machado non è un’eroina da copertina. Non è una Giovanna d’Arco latinoamericana né una rivoluzionaria in tailleur. È una donna che ha scelto di restare in piedi mentre intorno a lei tutto crollava: le istituzioni, la speranza, perfino la realtà. In Venezuela oggi la verità è un reato. E lei, la Machado, è colpevole di averla detta troppo spesso e troppo bene.
Il Comitato Nobel norvegese, con la sua proverbiale compostezza nordica, ha parlato di “una donna che tiene accesa la fiamma della democrazia in mezzo all’oscurità”. Parole eleganti, ma forse troppo educate per raccontare ciò che davvero accade. Perché in quella fiamma, in quel piccolo lume venezuelano, c’è un’intera nazione che da anni brucia nella fame, nella censura e nella paura.
La Machado non ha chiesto compassione, né riflettori. Ha chiesto elezioni libere. E per questo l’hanno prima zittita, poi bandita, infine braccata. Un regime — quello di Nicolás Maduro — che pretende di chiamarsi socialista mentre si regge sull’arroganza militare e sull’indifferenza dei potenti del mondo.
È il paradosso del nostro tempo: la democrazia è diventata un lusso da esportazione, un prodotto da esibire ai summit, ma non da difendere nei vicoli di Caracas o nei tribunali di Miraflores.
Eppure, eccola lì, questa donna esile e inflessibile, a ricevere un premio che spesso — diciamolo — è servito più a lavare le coscienze europee che a premiare il coraggio vero. Ma stavolta no. Stavolta il Nobel per la Pace ha un volto, una voce, una paura. E anche una condanna a non potersi più mostrare.
Chi conosce il Venezuela sa che non c’è nulla di romantico nella sua lotta. È un paese dove la benzina costa meno dell’acqua ma la libertà più di una vita. Dove la speranza è contrabbando e la giustizia un documento scaduto.
Eppure la Machado insiste. Non fugge, non si arrende, non baratta il proprio nome per una poltrona all’estero. È rimasta lì, in clandestinità, per ricordare a un popolo stremato che la schiavitù comincia quando si smette di indignarsi.
Certo, ci saranno i soliti scettici. Quelli che dicono che il Nobel non cambia nulla, che i regimi non cadono con i diplomi, che la diplomazia è fatta di compromessi. Ma a loro, la Machado risponderebbe che la dignità non si negozia.
Forse il Venezuela non tornerà libero domani. Forse lei non uscirà presto dalla clandestinità. Ma ogni dittatura comincia a morire il giorno in cui qualcuno la guarda in faccia e dice “No”.
E quel “No”, oggi, porta il nome di Maria Corina Machado.
Non è soltanto un premio. È un avvertimento.
Alla paura, al silenzio, e a tutti noi che da lontano abbiamo imparato a convivere con l’ingiustizia come fosse un rumore di fondo.
Perché “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.
E in Venezuela, quell’aria, oggi la respira una sola donna.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria 10 ottobre 2025
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