Se questa è la Sanità
L’editoriale di Luigi Palamara
Alle cinque del pomeriggio ho chiamato il 118.
La voce che mi ha risposto veniva da lontano, da un’altra città. Non sapeva dov’ero.
Mi ha chiesto la strada, e io — che avevo bisogno d’aiuto — ho dovuto fare da guida.
Così accade spesso, qui da noi: chi sta male deve ancora aiutare chi dovrebbe salvarlo.
E se uno non parla, o sviene, o muore prima che l’ambulanza trovi la via?
Google Maps non conosce i vicoli, né le case senza numero.
La Calabria, lo sappiamo, non è fatta per essere trovata.
Quando finalmente arrivano, sono gentili. Mi prendono la pressione, mi chiedono come sto.
Mi portano al Pronto Soccorso, dove nulla è pronto, ma tutto è attesa.
C’è un corridoio lungo e pieno di silenzi.
Le persone siedono, come soldati sconfitti, con gli occhi fissi davanti, aspettando che qualcuno si accorga di loro.
Ci si guarda senza parlare: il dolore degli altri diventa anche il tuo.
Aspetto ore. Alle ventuno, finalmente, mi visitano. Quattro ore d’attesa.
E mi è andata bene.
La dottoressa che mi accoglie è gentile, premurosa, fa ciò che è previsto dal protocollo.
Ma il tempo, qui, non scorre: marcisce.
Ogni minuto è una goccia che cade dal soffitto, lenta, inesorabile.
Mentre aspetto, osservo.
Una donna anziana dorme su una sedia da dodici ore.
Un figlio tiene la mano alla madre, da stamattina alle cinque.
Una signora urla da ore, forse più per paura che per dolore.
Le barelle si allineano come letti di fortuna in un campo profughi del corpo e dell’anima.
E io penso che non è colpa loro, dei medici o degli infermieri.
È colpa di un Paese che ha dimenticato il valore dell’uomo.
Un Paese dove la malattia è una condanna doppia: al dolore e alla solitudine.
Qui la sanità non cura, consola.
E anche la consolazione è povera, come tutto ciò che ci resta.
Mi domando dove finiscano i miliardi che ogni anno si spendono per curare la gente.
Forse si perdono per strada, come l’ambulanza che non trovava la mia via.
Forse li ingoia la stessa nebbia che da secoli copre questa terra, dove tutto è promesso e nulla arriva.
E così si vive, e si muore, in questa Calabria che pare sospesa tra la pazienza e la resa.
Una terra che “ha sempre creduto che la sofferenza fosse una forma d’onore”.
Ma non c’è più onore, oggi, nel soffrire così.
C’è solo un silenzio amaro, che sa di vergogna e di abbandono.
Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati – Reggio Calabria, 12 ottobre 2025
#sanità #reggiocalabria #gom #editoriale #luigipalamara
@luigi.palamara Se questa è la Sanità L’editoriale di Luigi Palamara Alle cinque del pomeriggio ho chiamato il 118. La voce che mi ha risposto veniva da lontano, da un’altra città. Non sapeva dov’ero. Mi ha chiesto la strada, e io — che avevo bisogno d’aiuto — ho dovuto fare da guida. Così accade spesso, qui da noi: chi sta male deve ancora aiutare chi dovrebbe salvarlo. E se uno non parla, o sviene, o muore prima che l’ambulanza trovi la via? Google Maps non conosce i vicoli, né le case senza numero. La Calabria, lo sappiamo, non è fatta per essere trovata. Quando finalmente arrivano, sono gentili. Mi prendono la pressione, mi chiedono come sto. Mi portano al Pronto Soccorso, dove nulla è pronto, ma tutto è attesa. C’è un corridoio lungo e pieno di silenzi. Le persone siedono, come soldati sconfitti, con gli occhi fissi davanti, aspettando che qualcuno si accorga di loro. Ci si guarda senza parlare: il dolore degli altri diventa anche il tuo. Aspetto ore. Alle ventuno, finalmente, mi visitano. Quattro ore d’attesa. E mi è andata bene. La dottoressa che mi accoglie è gentile, premurosa, fa ciò che è previsto dal protocollo. Ma il tempo, qui, non scorre: marcisce. Ogni minuto è una goccia che cade dal soffitto, lenta, inesorabile. Mentre aspetto, osservo. Una donna anziana dorme su una sedia da dodici ore. Un figlio tiene la mano alla madre, da stamattina alle cinque. Una signora urla da ore, forse più per paura che per dolore. Le barelle si allineano come letti di fortuna in un campo profughi del corpo e dell’anima. E io penso che non è colpa loro, dei medici o degli infermieri. È colpa di un Paese che ha dimenticato il valore dell’uomo. Un Paese dove la malattia è una condanna doppia: al dolore e alla solitudine. Qui la sanità non cura, consola. E anche la consolazione è povera, come tutto ciò che ci resta. Mi domando dove finiscano i miliardi che ogni anno si spendono per curare la gente. Forse si perdono per strada, come l’ambulanza che non trovava la mia via. Forse li ingoia la stessa nebbia che da secoli copre questa terra, dove tutto è promesso e nulla arriva. E così si vive, e si muore, in questa Calabria che pare sospesa tra la pazienza e la resa. Una terra che “ha sempre creduto che la sofferenza fosse una forma d’onore”. Ma non c’è più onore, oggi, nel soffrire così. C’è solo un silenzio amaro, che sa di vergogna e di abbandono. Luigi Palamara Tutti i diritti riservati – Reggio Calabria, 12 ottobre 2025 #gom #reggiocalabria #editoriale #luigipalamara #palamaraluigi ♬ suono originale - Luigi Palamara
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