Undici anni dopo. Reggio e il “ragazzo del ritorno”
L'Editoriale di Luigi Palamara
Una data che, per Reggio Calabria, non è solo una tacca sul calendario ma una ferita e una rinascita insieme è: 26 ottobre 2014. Era una domenica, il mare dello Stretto pareva quieto e carico di presagi, e un ragazzo di trentun anni – Giuseppe Falcomatà, figlio d’arte e di memoria – saliva sul balcone di Palazzo San Giorgio a ricevere il grido della città. Dopo due anni di commissariamento, di umiliazione civile per contiguità mafiose, Reggio tornava a essere padrona di se stessa. E lo faceva scegliendo un volto giovane, un cognome antico.
Fu, allora, una vittoria che sapeva di liberazione. Oltre il 61 per cento dei reggini gli affidò la chiave della città, con la fede di chi vuole dimenticare la vergogna e ricominciare. Era il trionfo di un centrosinistra ritrovato ma, più ancora, di una speranza popolare: che la politica potesse riscattare ciò che la mafia aveva insozzato.
Eppure, a guardarlo oggi, undici anni dopo, quel 26 ottobre sembra una fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo. Reggio ha avuto in Falcomatà non solo un sindaco, ma uno specchio. Nelle sue vittorie e nei suoi inciampi, nei suoi ritorni e nelle sue sospensioni, la città ha rivisto se stessa: fragile, orgogliosa, sempre in bilico tra l’eroismo e la rassegnazione.
“I popoli, come gli uomini, non imparano dalle proprie sconfitte ma neppure dalle proprie resurrezioni.” Reggio, da buona figlia del Sud, sembra averne fatto una legge. Perché Falcomatà, in questi anni, non è stato solo il sindaco della continuità familiare, ma il simbolo di un tentativo – forse ingenuo, forse necessario – di dare un volto politico alla speranza.
E qui, lasciatemelo dire senza veli e senza zucchero: la speranza, in politica, non basta. Serve il coraggio di sporcarsi le mani, di rompere con i padri, di non vivere all’ombra del cognome. Giuseppe, figlio di Italo, ne ha portato il peso come un’eredità e come una croce. Italo era il sindaco che sognava una città europea, Giuseppe quello che ha dovuto amministrare le macerie di una città commissariata, impoverita, ferita da se stessa.
Undici anni dopo, resta la domanda: che cosa è cambiato davvero da quel giorno del 2014? Forse poco. Forse tutto. Perché, nel Sud, il cambiamento non è mai una rivoluzione ma una lenta marea. Falcomatà è ancora lì, testardo, sopravvissuto alla macchina del fango e alle delusioni, come quei marinai che, nonostante la tempesta, continuano a riparare la barca invece di abbandonarla.
E questo, se vogliamo essere onesti, merita rispetto. Non l’applauso facile, ma il rispetto di chi non fugge.
Undici anni fa Reggio applaudiva un ragazzo e il suo sogno. Oggi, forse, non applaude più. Ma osserva. E attende. Perché ogni città, come ogni amore, ha bisogno di essere delusa per capire se può ancora credere.
E se Giuseppe Falcomatà riuscirà ancora una volta a parlare al cuore di quella città stanca e bella, allora – chissà – potremo dire che quel 26 ottobre non fu solo un giorno di festa, ma l’inizio di una storia che valeva la pena scrivere.
Luigi Palamara
Tutti I diritti riservati
Reggio Calabria 26 ottobre 2025
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@luigi.palamara Undici anni dopo. Reggio e il “ragazzo del ritorno” L'Editoriale di Luigi Palamara Una data che, per Reggio Calabria, non è solo una tacca sul calendario ma una ferita e una rinascita insieme è: 26 ottobre 2014. Era una domenica, il mare dello Stretto pareva quieto e carico di presagi, e un ragazzo di trentun anni – Giuseppe Falcomatà, figlio d’arte e di memoria – saliva sul balcone di Palazzo San Giorgio a ricevere il grido della città. Dopo due anni di commissariamento, di umiliazione civile per contiguità mafiose, Reggio tornava a essere padrona di se stessa. E lo faceva scegliendo un volto giovane, un cognome antico. Fu, allora, una vittoria che sapeva di liberazione. Oltre il 61 per cento dei reggini gli affidò la chiave della città, con la fede di chi vuole dimenticare la vergogna e ricominciare. Era il trionfo di un centrosinistra ritrovato ma, più ancora, di una speranza popolare: che la politica potesse riscattare ciò che la mafia aveva insozzato. Eppure, a guardarlo oggi, undici anni dopo, quel 26 ottobre sembra una fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo. Reggio ha avuto in Falcomatà non solo un sindaco, ma uno specchio. Nelle sue vittorie e nei suoi inciampi, nei suoi ritorni e nelle sue sospensioni, la città ha rivisto se stessa: fragile, orgogliosa, sempre in bilico tra l’eroismo e la rassegnazione. “I popoli, come gli uomini, non imparano dalle proprie sconfitte ma neppure dalle proprie resurrezioni.” Reggio, da buona figlia del Sud, sembra averne fatto una legge. Perché Falcomatà, in questi anni, non è stato solo il sindaco della continuità familiare, ma il simbolo di un tentativo – forse ingenuo, forse necessario – di dare un volto politico alla speranza. E qui, lasciatemelo dire senza veli e senza zucchero: la speranza, in politica, non basta. Serve il coraggio di sporcarsi le mani, di rompere con i padri, di non vivere all’ombra del cognome. Giuseppe, figlio di Italo, ne ha portato il peso come un’eredità e come una croce. Italo era il sindaco che sognava una città europea, Giuseppe quello che ha dovuto amministrare le macerie di una città commissariata, impoverita, ferita da se stessa. Undici anni dopo, resta la domanda: che cosa è cambiato davvero da quel giorno del 2014? Forse poco. Forse tutto. Perché, nel Sud, il cambiamento non è mai una rivoluzione ma una lenta marea. Falcomatà è ancora lì, testardo, sopravvissuto alla macchina del fango e alle delusioni, come quei marinai che, nonostante la tempesta, continuano a riparare la barca invece di abbandonarla. E questo, se vogliamo essere onesti, merita rispetto. Non l’applauso facile, ma il rispetto di chi non fugge. Undici anni fa Reggio applaudiva un ragazzo e il suo sogno. Oggi, forse, non applaude più. Ma osserva. E attende. Perché ogni città, come ogni amore, ha bisogno di essere delusa per capire se può ancora credere. E se Giuseppe Falcomatà riuscirà ancora una volta a parlare al cuore di quella città stanca e bella, allora – chissà – potremo dire che quel 26 ottobre non fu solo un giorno di festa, ma l’inizio di una storia che valeva la pena scrivere. Luigi Palamara Tutti I diritti riservati Reggio Calabria 26 ottobre 2025 #giuseppefalcomatà #reggiocalabria #sindaco #editoriale #luigipalamara ♬ sonido original - user72435671647
@luigi.palamara Undici anni dopo. Reggio e il “ragazzo del ritorno” L'Editoriale di Luigi Palamara Una data che, per Reggio Calabria, non è solo una tacca sul calendario ma una ferita e una rinascita insieme è: 26 ottobre 2014. Era una domenica, il mare dello Stretto pareva quieto e carico di presagi, e un ragazzo di trentun anni – Giuseppe Falcomatà, figlio d’arte e di memoria – saliva sul balcone di Palazzo San Giorgio a ricevere il grido della città. Dopo due anni di commissariamento, di umiliazione civile per contiguità mafiose, Reggio tornava a essere padrona di se stessa. E lo faceva scegliendo un volto giovane, un cognome antico. Fu, allora, una vittoria che sapeva di liberazione. Oltre il 61 per cento dei reggini gli affidò la chiave della città, con la fede di chi vuole dimenticare la vergogna e ricominciare. Era il trionfo di un centrosinistra ritrovato ma, più ancora, di una speranza popolare: che la politica potesse riscattare ciò che la mafia aveva insozzato. Eppure, a guardarlo oggi, undici anni dopo, quel 26 ottobre sembra una fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo. Reggio ha avuto in Falcomatà non solo un sindaco, ma uno specchio. Nelle sue vittorie e nei suoi inciampi, nei suoi ritorni e nelle sue sospensioni, la città ha rivisto se stessa: fragile, orgogliosa, sempre in bilico tra l’eroismo e la rassegnazione. “I popoli, come gli uomini, non imparano dalle proprie sconfitte ma neppure dalle proprie resurrezioni.” Reggio, da buona figlia del Sud, sembra averne fatto una legge. Perché Falcomatà, in questi anni, non è stato solo il sindaco della continuità familiare, ma il simbolo di un tentativo – forse ingenuo, forse necessario – di dare un volto politico alla speranza. E qui, lasciatemelo dire senza veli e senza zucchero: la speranza, in politica, non basta. Serve il coraggio di sporcarsi le mani, di rompere con i padri, di non vivere all’ombra del cognome. Giuseppe, figlio di Italo, ne ha portato il peso come un’eredità e come una croce. Italo era il sindaco che sognava una città europea, Giuseppe quello che ha dovuto amministrare le macerie di una città commissariata, impoverita, ferita da se stessa. Undici anni dopo, resta la domanda: che cosa è cambiato davvero da quel giorno del 2014? Forse poco. Forse tutto. Perché, nel Sud, il cambiamento non è mai una rivoluzione ma una lenta marea. Falcomatà è ancora lì, testardo, sopravvissuto alla macchina del fango e alle delusioni, come quei marinai che, nonostante la tempesta, continuano a riparare la barca invece di abbandonarla. E questo, se vogliamo essere onesti, merita rispetto. Non l’applauso facile, ma il rispetto di chi non fugge. Undici anni fa Reggio applaudiva un ragazzo e il suo sogno. Oggi, forse, non applaude più. Ma osserva. E attende. Perché ogni città, come ogni amore, ha bisogno di essere delusa per capire se può ancora credere. E se Giuseppe Falcomatà riuscirà ancora una volta a parlare al cuore di quella città stanca e bella, allora – chissà – potremo dire che quel 26 ottobre non fu solo un giorno di festa, ma l’inizio di una storia che valeva la pena scrivere. Luigi Palamara Tutti I diritti riservati Reggio Calabria 26 ottobre 2025 #giuseppefalcomatà #reggiocalabria #sindaco #editoriale #luigipalamara ♬ Smooth Strut (Syn) - Ah2
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