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Giorgia Meloni. Chiamarla fascista è il più grande regalo che le si possa fare.

Giorgia Meloni. Chiamarla fascista è il più grande regalo che le si possa fare.

Editoriale di Luigi Palamara un osservatore inquieto del nostro tempo


C’è un errore antico che le democrazie commettono quando si trovano di fronte a leader populisti: li insultano anziché smascherarli. E più l’insulto è greve, più l’effetto è opposto. Così, oggi, l’accusa di fascismo rivolta a Giorgia Meloni non la indebolisce, ma la rafforza. È un paradosso che si nutre dell’emozione più potente della politica moderna: il vittimismo.

Meloni ha saputo fare del proprio passato una corazza. La fiamma tricolore resta nel simbolo, ma è lo stile che cambia: toni moderati, rassicurazioni sull’Alleanza Atlantica, rispetto apparente delle regole democratiche. Il tutto mentre inizia a piegare la forma delle istituzioni con riforme costituzionali che rafforzano l’esecutivo, controllo dei media e retorica della nazione minacciata.

Eppure, ogni volta che l’opposizione grida al fascismo, non colpisce lei, ma colpisce se stessa. Perché quell’urlo, stanco e reiterato, si perde nel rumore. E trasforma la presidente del Consiglio in ciò che di più potente esista nella retorica politica: una perseguitata. Una donna sola contro l’establishment, le élite intellettuali, i giornalisti borghesi.

Meloni non vince nonostante quell’accusa. Vince grazie a quell’accusa.

Lo sanno bene i suoi comunicatori. Lo sanno i suoi consiglieri. E lo sanno, forse inconsciamente, anche molti di coloro che la votano. C’è un gusto quasi infantile nel sentirsi parte di una comunità attaccata. Un desiderio di rivalsa contro chi ha governato prima e ha lasciato solo rabbia e burocrazia. Etichettare Meloni come fascista equivale a dire ai suoi elettori: "Siete impresentabili." E questo li tiene stretti, uniti, compatti.

Non c’è niente di più inutile oggi che parlare del ‘ventennio’. L’elettore del 2025 non ha memoria storica ma percezioni. E percepisce che chi grida al fascismo non ha altro da dire.

L'opposizione dovrebbe guardare agli atti, non ai simboli. Denunciare le riforme che minano i contrappesi. Spiegare come il premierato riduce la rappresentanza. Documentare i tagli alla sanità, gli attacchi alla magistratura, il controllo mediatico. Ma tutto questo richiede fatica, studio, precisione. Più semplice è agitare un fantasma.

E invece i fantasmi, si sa, non spaventano più nessuno. O peggio: oggi fanno simpatia.

Chiamare Meloni “fascista” è come chiamare un pesce “asciutto”: non attacca. Il carisma si rafforza quando si attiva una narrazione di resistenza. Ecco perché Meloni gode della sua opposizione: la tiene esattamente nel posto in cui le serve.

La vera domanda non è se Meloni sia fascista. È: che cosa sta facendo, davvero, al nostro Stato di diritto?
E finché non si tornerà a questa domanda, lei continuerà a vincere. Con l’accusa di fascismo cucita addosso come una medaglia.

Una democrazia non si salva con lo sdegno. Si salva con il pensiero.

Luigi Palamara

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