Alberto Trentini, ostaggio del silenzio e del nostro disonore
Editoriale di Luigi Palamara un cittadino che non si arrende all’indifferenza
Non si scrive di un prigioniero per riempire colonne, ma per dare voce a ciò che è stato tolto: il diritto di essere visto, ascoltato, difeso. Alberto Trentini è scomparso. Non nel senso romantico della letteratura d’evasione, ma nel senso più crudo della geografia del potere: un uomo italiano sequestrato senza processo in un Paese che si dichiara sovrano solo quando ignora i diritti umani.
E noi? Noi stiamo lì, seduti, in attesa che “la diplomazia faccia il suo corso”, come si dice con l’ipocrisia raffinata di chi sa che il corso, se non ha vento, si secca. E il vento non arriva. Neppure una folata.
Chi è Alberto Trentini? Non un trafficante, non un agente, non un giornalista invadente. È un operatore umanitario. Uno di quei cristiani laici che invece di firmare petizioni si mette il giubbotto e parte per gli ultimi luoghi della Terra, quelli dove la miseria si mescola alla paura e la speranza ha l’odore acre del gasolio bruciato.
L’hanno arrestato il 15 novembre 2024, senza spiegare il perché. Nessuna accusa, nessuna udienza. Solo silenzio. Lo stesso silenzio che oggi ci ritorna addosso come un boomerang: lo stesso che c’era a Teheran per i dissidenti, a Santiago per gli spariti, a Pechino per chi parlava troppo. Ma adesso quel silenzio è a Caracas, e dentro ci sta anche un italiano. Il nostro italiano.
E allora viene da chiedersi: dov’è l’Italia? Non la burocrazia che spedisce note verbali al ministero degli Esteri venezuelano, ma l’Italia delle madri, dei padri, dei cittadini che sanno cosa significa aspettare un figlio che non torna. Alberto ha parlato per 181 giorni con il muro. Poi, il 15 maggio, una voce: “Sto bene”. E subito, di nuovo, il buio.
Ma la verità è che si è perso l’orgoglio di essere italiani. Quell’orgoglio che una volta ci faceva erigere il petto davanti all’ingiustizia, che ci rendeva capaci di difendere i nostri, ovunque fossero. Oggi è svanito. Abbiamo smarrito la dignità che dovrebbe scattare automatica quando la vita di un nostro connazionale è in pericolo. A furia di proclami, di nazionalismi da talk show, ci siamo convinti di essere patrioti. Ma il patriottismo, quello vero, non è sventolare una bandiera la domenica: è chinarsi su un figlio del nostro Paese e dirgli “ti riportiamo a casa”.
E invece niente. L’Italia resta muta. Incapace. Pavida. Non tuteliamo chi è nato qui, chi parla la nostra lingua, chi crede nei nostri valori. Diciamo di essere una Nazione, ma non ci comportiamo come tale. Diciamo di amare il tricolore, ma non ci muoviamo per chi sotto quel tricolore è stato cresciuto.
Mi vergogno, da italiano. Mi vergogno di vivere in uno Stato che si mostra forte con i deboli e debole con i forti. Mi vergogno di un’Italia che riesce a fare la voce grossa su Twitter, ma tace quando si tratta di salvare un suo cittadino da una prigione straniera, da una tortura silenziosa.
E non mi interessa se la realpolitik dice di stare cauti, di trattare sottotraccia, di aspettare “il momento giusto”. Perché c’è un momento in cui le parole devono diventare fatti, le visite consolari devono diventare liberazioni, e la pietà deve diventare giustizia.
Trentini è in carcere, ma l’accusa è contro di noi. E si chiama indifferenza.
Se anche oggi non ne parliamo, se domani cambiamo canale, se dopodomani diremo “beh, ormai sono passati mesi”… allora non meritiamo la libertà che lui ha perduto.
E ricordiamolo con le parole che nessun regime può censurare:
un uomo non è un problema diplomatico,
è una coscienza che ci guarda in silenzio.
Luigi Palamara Tutti I diritti riservati
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