Non siamo tutti americani
Editoriale di Luigi Palamara
In un mondo dove le bandiere si piegano più al vento dell’economia che a quello dei principi, e dove l’imperialismo non ha più bisogno di carri armati ma di algoritmi, la frase lapidaria di Diego Armando Maradona — “Gli Stati Uniti d’America credono di comandare il mondo, però noi non siamo tutti americani” — risuona come un pugno lanciato dal basso, dal campo polveroso di Villa Fiorito, alla faccia levigata di Wall Street.
Maradona, che pure ha frequentato gli inferi quanto gli olimpi dell’idolatria popolare, qui non parla da calciatore. Parla da popolo. E il popolo, quando è sincero, è scomodo. È crudo. È vero.
Questa affermazione è più di un giudizio: è un atto d'accusa. Rivolta non soltanto contro la politica estera americana, spesso travestita da missione di civiltà, ma anche contro l’arroganza culturale che accompagna l’esportazione del “sogno americano”. Quel sogno che, nella sua versione originale, era intriso di libertà e opportunità, ma che nel tempo si è trasformato in un monologo globale, dove l’altro — il diverso, il non allineato — è al massimo un comprimario. Mai un protagonista.
Con il nostro disincanto, diciamo che la libertà americana è autentica in casa propria ma coloniale altrove. Con la nostra furia lucida, mettiamo in fila i nomi dei Paesi “liberati” a colpi di droni, mostrando le macerie e i bambini con le braccia amputate. E infine, analizzando le dinamiche collettive, ricordiamo che ogni impero nasce da un innamoramento collettivo, ma muore quando pretende amore eterno.
Non si tratta, beninteso, di antiamericanismo becero, né di negare i meriti storici degli Stati Uniti: basti pensare al ruolo decisivo nella sconfitta del nazifascismo o nell’innovazione tecnologica. Si tratta, piuttosto, di un diritto — anzi, di un dovere — alla differenza. Alla resistenza culturale. All’autodeterminazione politica. A dire, con coraggio: “Grazie, ma non siamo tutti americani. E non vogliamo esserlo.”
Maradona lo diceva a modo suo, come un caudillo sudamericano nato tra la polvere e cresciuto nel mito. Ma sotto le sue parole batte un cuore che non appartiene solo all’Argentina o all’America Latina. Appartiene a tutti quei popoli che ancora credono che un’identità non sia un prodotto da importare, ma una storia da raccontare.
Ed è proprio quella storia che oggi rischiamo di smarrire, annegata in una globalizzazione che ha un solo volto, una sola lingua, una sola morale: quella di chi vince. Ma il mondo, per fortuna, è fatto anche di chi resiste. E di chi, come Maradona, nonostante tutto, continua a dire la verità con la palla tra i piedi e il fuoco negli occhi.
“Non siamo tutti americani.”
E questo, almeno per ora, è il nostro ultimo vero atto di libertà.
Luigi Palamara Tutti I diritti riservati
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@luigi.palamara Non siamo tutti americani Editoriale di Luigi Palamara In un mondo dove le bandiere si piegano più al vento dell’economia che a quello dei principi, e dove l’imperialismo non ha più bisogno di carri armati ma di algoritmi, la frase lapidaria di Diego Armando Maradona — “Gli Stati Uniti d’America credono di comandare il mondo, però noi non siamo tutti americani” — risuona come un pugno lanciato dal basso, dal campo polveroso di Villa Fiorito, alla faccia levigata di Wall Street. Maradona, che pure ha frequentato gli inferi quanto gli olimpi dell’idolatria popolare, qui non parla da calciatore. Parla da popolo. E il popolo, quando è sincero, è scomodo. È crudo. È vero. Questa affermazione è più di un giudizio: è un atto d'accusa. Rivolta non soltanto contro la politica estera americana, spesso travestita da missione di civiltà, ma anche contro l’arroganza culturale che accompagna l’esportazione del “sogno americano”. Quel sogno che, nella sua versione originale, era intriso di libertà e opportunità, ma che nel tempo si è trasformato in un monologo globale, dove l’altro — il diverso, il non allineato — è al massimo un comprimario. Mai un protagonista. Con il nostro disincanto, diciamo che la libertà americana è autentica in casa propria ma coloniale altrove. Con la nostra furia lucida, mettiamo in fila i nomi dei Paesi “liberati” a colpi di droni, mostrando le macerie e i bambini con le braccia amputate. E infine, analizzando le dinamiche collettive, ricordiamo che ogni impero nasce da un innamoramento collettivo, ma muore quando pretende amore eterno. Non si tratta, beninteso, di antiamericanismo becero, né di negare i meriti storici degli Stati Uniti: basti pensare al ruolo decisivo nella sconfitta del nazifascismo o nell’innovazione tecnologica. Si tratta, piuttosto, di un diritto — anzi, di un dovere — alla differenza. Alla resistenza culturale. All’autodeterminazione politica. A dire, con coraggio: “Grazie, ma non siamo tutti americani. E non vogliamo esserlo.” Maradona lo diceva a modo suo, come un caudillo sudamericano nato tra la polvere e cresciuto nel mito. Ma sotto le sue parole batte un cuore che non appartiene solo all’Argentina o all’America Latina. Appartiene a tutti quei popoli che ancora credono che un’identità non sia un prodotto da importare, ma una storia da raccontare. Ed è proprio quella storia che oggi rischiamo di smarrire, annegata in una globalizzazione che ha un solo volto, una sola lingua, una sola morale: quella di chi vince. Ma il mondo, per fortuna, è fatto anche di chi resiste. E di chi, come Maradona, nonostante tutto, continua a dire la verità con la palla tra i piedi e il fuoco negli occhi. “Non siamo tutti americani.” E questo, almeno per ora, è il nostro ultimo vero atto di libertà. Luigi Palamara Tutti I diritti riservati #americani #diefoarmandomaradona #editoriale #luigipalamara #palamaraluigi #luispal #luipal #lupa ♬ suono originale - Luigi Palamara
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