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Paolo Borsellino. Quella Fiat 126 e l’Italia che ancora si guarda allo specchio

Quella Fiat 126 e l’Italia che ancora si guarda allo specchio
Editoriale di Luigi Palamara


Alle 16:58 di quel 19 luglio 1992, una Fiat 126 imbottita di tritolo squarciava l’asfalto di Via D’Amelio e, con esso, l’anima di un Paese. Non solo il corpo di Paolo Borsellino venne polverizzato insieme a quelli di Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Fu sbranato anche l’ultimo scampolo d’innocenza di una Repubblica che da troppo tempo si illudeva che la mafia potesse essere domata con una retorica di Stato e un po’ di scorta sotto casa.

Borsellino non era un martire in attesa del suo sacrificio. Era un uomo di legge, un uomo di carne, uno che conosceva il proprio destino ma non vi si consegnava passivamente. Diceva: “È normale avere paura, l’importante è non farsi condizionare.” Non c'è bisogno di essere giuristi o cronisti per comprendere il peso atroce di quelle parole. Basta essere uomini. Donne. Italiani. O almeno provarci.

Oggi, a 33 anni da quella strage, Palermo si riempie di corone, discorsi, bambini che colorano via D’Amelio. Sono immagini necessarie. Ma non bastano. Non bastano più. Perché le commemorazioni, da sole, rischiano di diventare il trucco pesante con cui un Paese cerca di coprire le rughe del suo tradimento. E sì, lo si può dire anche senza retorica: lo Stato ha tradito Borsellino. L’ha lasciato solo. L’ha spiato. L’ha forse usato. Di certo non l’ha protetto.

E questo — caro lettore — non lo dico io. Lo dicono i depistaggi, le agende rosse sparite, le verità mai dette. Lo dice quell’odore di collusione che, come un fumo di benzina vecchia, aleggia ancora nei verbali e nei palazzi.

Certo, oggi c’è chi onora il giudice con cerimonie sincere: a Palermo, Reggio Emilia, Modena, Milano, perfino Pantelleria. C’è chi cammina, chi prega, chi grida “Resistenza è memoria!”. E poi ci sono i giovani — benedetti ragazzi — che in un’Italia stanca e disillusa, ancora si ostinano a cercare verità.

Ma c’è un altro Paese. Un’Italia silente, che inciampa nell’apatia e affoga nei talk show. Un’Italia che ha imparato a convivere con l’omertà come fosse una condizione climatica. Un’Italia che applaude Falcone e Borsellino ma non chiede giustizia per quello che, ancora oggi, è un delitto senza mandanti noti.

E allora bisogna dirlo senza ipocrisie: non si può amare Paolo Borsellino e restare indifferenti al silenzio che lo ha ucciso. Non si può ricordarlo senza domandarsi chi abbia davvero ordinato quell’esplosione. Né si può delegare tutto ai magistrati di oggi, ai figli di una toga ferita, che ancora camminano nella stessa terra che tradì i loro padri.

Il giudice Paolo, come lo chiamavano i suoi ragazzi, non cercava il monumento. Cercava il risveglio di una coscienza civile. Cercava cittadini, non sudditi. Cercava verità, non versioni ufficiali. Cercava giustizia, non vendetta.

Oggi, 19 luglio 2025, abbiamo il dovere di chiederci se, almeno in parte, lo abbiamo tradito ancora.
E se la risposta è sì — e lo è, in parte — allora abbiamo un compito: far sì che la prossima commemorazione non sia una liturgia, ma un atto politico. Un gesto di verità. Perché la memoria vera non sta nei fiori, ma nel coraggio di rimettere le mani in quella ferita che ancora gronda silenzio.

Perché Borsellino non è morto per morire.
È morto per svegliarci.
E noi, forse, stiamo ancora dormendo.

Firmato con onore e indignazione.
In nome della giustizia. In nome della verità.
In nome del giudice Paolo.

Luigi Palamara

Dipinto di Luigi Palamara

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