Giudici da tastiera e l’invasione di campo a senso unico.
Via dalle scatole una buona volta per tutte.
Editoriale di Luigi Palamara
Persiste purtroppo un vizio nuovo, ma vecchio quanto l’uomo. Il vizio di giudicare. Di farlo con leggerezza, con arroganza, e soprattutto con una presunzione che sfiora l'idiozia. Ma oggi questo vizio ha trovato un megafono: la rete, il commento, l’illustre sconosciuto mai calcolato che da dietro uno schermo si erge a maestro del mondo.
“Giornalista... se così si può chiamare.”
Ecco l’esordio. Una frase che puzza di veleno, detta non per discutere, ma per sputare. È l’inizio di un processo sommario, senza prove né appello. Il tono è quello di chi non chiede: decreta. Di chi non guarda per capire, ma per sminuire. È l’insegna di una società che ha confuso il diritto di parola con il diritto di insulto.
Ma peggio ancora è la bava appiccicosa di questi piccoli inquisitori. Viscidi. Striscianti. Sempre pronti a insinuarsi sotto la pelle altrui con l’unico intento di sminuire, offendere, screditare. Non criticano per costruire, non discutono per approfondire. Sputano per godimento. Gente che non cerca verità, ma conferme ai propri pregiudizi. E se non le trova, morde.
Caro giudice improvvisato, vedi di fermarti. Vengo a vedere cosa fai, come lo fai, e poi — se proprio devo — giudico. Ma giudico con la coscienza, con l’onestà, con la consapevolezza che ogni mestiere, anche il più umile, merita rispetto. E soprattutto giudico senza lo stomaco pieno d’odio e la testa vuota di idee.
Questo maledetto vezzo di voler sempre avere l’ultima parola, anche quando sarebbe più dignitoso tacere. Questa mania di voler insegnare agli altri come si fa il loro mestiere, senza aver mai avuto il coraggio di sporcarcisi le mani.
Ah, ma vuoi l’imparzialità! Ma solo se scrivo ciò che ti piace. Vuoi la verità? Solo se suona come la tua. Allora diciamolo chiaro: non vuoi imparzialità. Vuoi obbedienza. Vuoi che il giornalista sia il cameriere della tua opinione, pronto a servirti articoli a tema, già conditi e digeriti, senza mai disturbare il tuo fragile senso del mondo.
Rispetto. È questa la parola chiave. Non mi importa se non sei d’accordo con me, ma abbi rispetto. Rispetto per chi scrive, per chi cerca, per chi prova a capire, anche sbagliando. Invece no. Oggi tutti intellettuali. Tutti con la laurea in tuttologia e il master in insulto.
Ecco la verità: chi disprezza il lavoro o l’opinione altrui non merita alcuna considerazione. Nessuna stima. Nessun dialogo. Solo il mio più totale disprezzo. Chi si arroga il diritto di offendere senza sapere, chi sputa sulla fatica altrui con la spocchia di un idiota in cattedra, merita una sola cosa: una pedata nel culo.
Allora vieni, forza. Vieni che ti giudico io. E vedrai quanti errori fai. Vedrai quante cose potresti fare meglio — o almeno, quanto potresti provarci senza riuscirci.
Il mondo è pieno di gente che rompe, che giudica, che sentenzia. Ma se tutti si guardassero un po’ più spesso allo specchio e un po’ meno negli specchi degli altri, ci sarebbe più silenzio, più decenza.
Suvvia. Vai a giudicare a casa tua. Anzi, pensa a giudicare te stesso. E lascia stare chi lavora. Che magari, se smetti di rompere, riesci pure a fare qualcosa di buono.
Luigi Palamara
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