La pace non si costruisce con le armi
Editoriale di Luigi Palamara
Ci sono parole che, oggi, non bastano più.
Russia.
Ucraina.
Palestina.
Gaza.
Israele.
Iran.
Non sono soltanto nomi.
Sono ferite aperte sulla pelle del mondo.
Simboli di un dolore che non accenna a fermarsi.
Luoghi in cui la vita umana ha perso valore.
Ogni giorno scorrono immagini sempre uguali.
Città ridotte in macerie.
Bambini senza futuro.
Genitori che scavano con le mani, cercando un figlio, un fratello, un frammento di speranza.
E noi?
Ci commuoviamo per un attimo…
Poi scrolliamo.
E torniamo a vivere.
O almeno, a far finta.
Eppure, mentre il mondo brucia,
in Europa si parla di riarmo.
Di spese militari.
Di strategie “difensive”.
Torna la vecchia giustificazione:
“Dobbiamo prepararci alla guerra, se vogliamo la pace.”
Ma io mi chiedo:
Ha mai funzionato davvero?
Nel 1914, l’Europa era il continente più armato e civilizzato del mondo.
Eppure scoppiò la Grande Guerra.
Nel 1938 si riarmavano per “evitare il peggio”.
L’anno dopo, esplodeva il secondo conflitto mondiale.
La guerra non arriva mai per caso.
È sempre il risultato di una lunga preparazione.
Più si costruiscono armi, più cresce la probabilità che qualcuno — prima o poi — le usi.
Viviamo nell’era dell’intelligenza artificiale, della medicina quantistica, dei satelliti su Marte.
Eppure ci affidiamo ancora a bombe, razzi, missili…
Per risolvere i conflitti.
È come voler curare il cancro con i salassi medievali.
Assurdo.
Tragico.
La pace non nasce dalla minaccia.
E non si costruisce con l’acciaio.
Nasce dal rispetto.
Dal dialogo.
Dalla giustizia.
Dall’educazione.
Dalla cultura.
Dalla bellezza.
Parlare di pace mentre si investe in armi è un ossimoro.
È come voler spegnere un incendio con la benzina.
E lo sanno bene — credetemi — le vittime innocenti.
Quelle che non vedono bandiere, ma solo sangue, fame, paura.
È tempo di cambiare rotta.
È tempo di affermare che un’altra via è possibile.
Rispondiamo alla violenza con la cultura.
Alla paura con la musica.
All’odio con la gentilezza.
Iniziamo a considerare il disarmo non come un segno di debolezza,
ma come la più alta espressione di civiltà.
E sì — torniamo anche a pregare.
Non per chiedere a Dio ciò che spetta a noi,
ma per ricordarci che l’umano ha ancora un’anima.
E che può ancora scegliere.
Oggi, la storia ci mette davanti a un bivio.
Possiamo continuare a credere che la guerra sia inevitabile.
Oppure cominciare, finalmente, a trattare la pace come un dovere.
Un dovere attivo.
Concreto.
Quotidiano.
La pace non si costruisce con le armi.
Si costruisce con il coraggio.
L’antico motto latino — Si vis pacem, para bellum — ha fatto il suo tempo.
Oggi rischia di diventare una trappola semantica:
più armi produciamo, più cresce il rischio che vengano usate.
E infatti, vengono usate. Ogni giorno. Con effetti devastanti.
La pace, quella vera, non nasce dalla minaccia.
Nasce dalla fiducia. Dal disarmo. Dal dialogo.
È un processo lento, faticoso, ma non impossibile.
È una cultura da coltivare, non una tecnologia da progettare.
In un’epoca che si proclama evoluta,
non possiamo più accettare che la sicurezza venga ancora misurata in kilotoni.
Serve una rivoluzione del pensiero.
Serve reagire con gesti opposti alla logica della guerra:
arte, musica, cultura, educazione, bellezza, preghiera.
Sì, anche la preghiera.
Perché in certe notti, davanti al dolore del mondo,
pregare è l’ultimo atto umano possibile.
Bisogna scuotere le coscienze.
Risvegliare la parte migliore di noi stessi.
Prima che sia troppo tardi.
Perché nessuna pace può essere vera se costruita sopra le tombe dei più fragili.
E perché la guerra non è mai la soluzione.
È sempre, irrimediabilmente, il problema.
A noi la scelta.
Luigi Palamara
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