LA SCONFITTA.
La solitudine del campione e il peso leggero della sconfitta
Editoriale di Luigi Palamara
C’è un momento, nell’esistenza di ogni uomo, in cui il rumore del mondo si spegne. Un momento in cui si resta soli con se stessi, nudi davanti alla propria coscienza. È accaduto a Jannik Sinner, nella pancia dello stadio di Parigi, dopo la finale. Venti minuti. Da solo, seduto nello spogliatoio, come un ragazzo che ha appena conosciuto l’amaro del limite. Nessuno scatto, nessuna dichiarazione. Solo silenzio.
Eppure in quel silenzio non c’era disfatta. C’era, anzi, il germe maturo della grandezza. I suoi compagni lo hanno abbracciato, sì, ma era chiaro che lui stesse già facendo un passo avanti. Perché perdere, per chi sa vedere, non è il contrario di vincere. È il suo completamento.
Sinner ha capito qualcosa che molti atleti, e ancor più molti uomini, non comprendono mai: che la vita reale è un campo più vasto del centrale del Roland Garros. Che un rovescio sbagliato non pesa quanto una parola non detta a chi si ama. Che il tennis, come tutte le passioni totalizzanti, può bruciare e illuminare, ma non deve mai consumare l’anima.
Sinner è “un ragazzo d’altri tempi, con il fisico d’oggi e il cuore di sempre”. Ho visto in quel silenzio una rinascita emotiva, la scoperta del limite come forza interiore. In realtà, Jannik è semplicemente un uomo che ha imparato a mettere la sconfitta nella sua giusta misura: non come un macigno, ma come un sasso nel fiume, destinato a essere levigato, superato, dimenticato.
Ecco allora perché quella partita non è finita, ma neppure lo ha segnato. Perché quando si è uomini prima che atleti, e persone prima che personaggi, ogni sconfitta è solo l’altra faccia della libertà.
Luigi Palamara
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