La verità non è un lampo: il processo Ecosistema e l’illusione della parola fine
La pazienza del giusto e l’urlo dell’innocente
Editoriale di Luigi Palamara
C’è una virtù che la modernità ha smarrito, e che la giustizia – quella vera – non può permettersi di dimenticare: la pazienza. In un mondo che pretende verità istantanee, processi lampo e assoluzioni urlate ai quattro venti, il caso “Ecosistema” ci ricorda che la verità non si dà in pasto ai social, non si proclama tra le lacrime e gli applausi. Si attende. Si costruisce. Si conquista con fatica, non con hashtag.
A Reggio Calabria, Rosario Azzarà e gli altri imputati sono stati assolti in appello. La notizia ha scatenato commozione, esultanza, rivendicazioni. Umani, comprensibili, persino giusti, questi sentimenti. Ma il diritto, a differenza della gioia, non si consuma in un giorno. E la giustizia non finisce con l’applauso.
Chi ha attraversato un calvario giudiziario lungo otto anni ha diritto a parlare. Ha diritto allo sfogo, alla memoria, alla denuncia. Ma non alla parola “fine”. Non ancora. Perché la giustizia italiana è fatta di tre gradi. E finché la Corte di Cassazione non avrà parlato, ogni celebrazione rischia di essere non solo prematura, ma anche dannosa.
Viviamo nell’epoca della spettacolarizzazione giudiziaria. I blitz, le accuse roboanti, le dirette streaming del dolore e della rabbia: tutto scorre davanti ai nostri occhi come in una serie TV. Ma la verità giudiziaria – quella che conta – ha i tempi lunghi del diritto, non le pulsazioni dei social.
È qui che serve una nuova etica dell’attesa. Una sobrietà pubblica che non è debolezza, ma forza. Non è rassegnazione, ma rispetto. Perché anche l’innocenza, se esibita con eccesso, rischia di somigliare a una vendetta.
Chi è stato assolto, è stato assolto. Non ha bisogno di gridarlo. Non ha bisogno di pretendere vendette simmetriche contro chi lo ha accusato, travolto, messo alla gogna. La vera dignità sta nel camminare a testa alta, non nel rivendicare a gran voce di aver vinto. Perché nella giustizia – e nella vita – non vince chi parla di più, ma chi sa aspettare senza smettere di credere.
E sì, lo so bene anch’io. So cosa significa essere messo alla berlina, essere giudicato prima dei giudici, ignorato dopo l’assoluzione come se la giustizia desse fastidio. So cosa vuol dire sentirsi messo da parte, dopo essere stato additato come colpevole. Ma proprio per questo continuo a credere nella giustizia. Anche quando fa male. Anche quando sembra tardare.
Perché il valore di un uomo non lo stabilisce una sentenza. Lo stabilisce il modo in cui sa stare in piedi nel mezzo della tempesta. E soprattutto dopo.
Il caso “Ecosistema” ci chiede di riflettere. Su ciò che resta, su ciò che conta, su ciò che verrà. Ci chiede di distinguere la vendetta dalla giustizia, l’euforia dalla verità, la rabbia dalla compostezza. E ci chiede – oggi più che mai – di sapere aspettare.
Perché la verità, quella vera, non è un lampo.
È un cammino. E chi ha fede nella giustizia non corre. Resiste.
“Chi gode delle ingiustizie altrui, spesso se le ritrova servite su un piatto d’argento. Un po’ come chi augura la morte agli altri: finisce per trovarla dietro la porta di casa.”
E in quella porta, un giorno, ci guarderemo tutti.
Luigi Palamara
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