Il sasso di Canale nello stagno Reggino. Politica? No, rivolta gentile o abile travestimento?
Editoriale di Luigi Palamara
Anche a Reggio Calabria come in tutta Italia c’è chi la politica la fa per mestiere, chi per convenienza, chi per disperazione, e chi – come Massimo Canale – dice di volerla fare per necessità morale. Una necessità che non nasce da partiti, tessere, correnti o pacche sulle spalle nei corridoi del potere, ma da un'urgenza esistenziale: restituire senso a una città che ha smesso di cercarne uno. Reggio Calabria. Una delle tante periferie dell’Italia smarrita, dove la parola politica è stata svuotata di ogni dignità fino a diventare sinonimo di disillusione.
E allora Canale prende la parola, ma non la poltrona. Non si candida, si rende disponibile. È una sfumatura, ma anche un ribaltamento. Non "Io, sindaco", ma "Noi, laboratorio". Nasce così “Onda Orange”: un nome che sa di sole e di ribellione, di movimento e di rottura. Nessun simbolo di partito, nessuna lista, nessuna bandiera. Solo una stanza piena di idee e di volti, alcuni giovanissimi, altri solo un po' più segnati dal tempo, ma tutti accomunati da un gesto antico e sovversivo: restare.
Restare a Reggio, lavorarci, scommetterci, perfino tornare da fuori. Ma restare ora è facile, verrebbe da dire, quando per anni ci si è presi tutto dalla città e poco – troppo poco – si è restituito. Perché Massimo Canale, a ben guardare, non è una novità. È stato un uomo di partito, e lo è ancora, nella forma mentis e nel linguaggio. Ha attraversato le stagioni del centrosinistra reggino senza mai davvero cambiarne il passo, né la narrazione. E allora viene spontaneo chiedersi: cosa ha fatto Massimo Canale per Reggio Calabria, in concreto?
Non bastano le buone intenzioni, né l’entusiasmo dei giovani professionisti, a cancellare una storia politica fatta anche di silenzi, di immobilismi, di occasioni mancate. E allora presentarsi oggi come un laboratorio civico, come una pagina nuova, può apparire – a dirla tutta – una trovata di marketing più che un'illuminazione politica. Soprattutto in una città che di “sperimentazioni” ne ha viste tante, e quasi sempre a proprie spese.
In democrazia, si sa, ci sta tutto: anche raccontare tutto e il contrario di tutto. Ma la gente – quella vera, che prende l’autobus, che cerca un medico, che apre bottega – non cerca più novità, né “proposte di metodo”, né slogan post-ideologici. Cerca serietà, coerenza, risultati. E invece continua a ricevere contenitori, etichette, colori nuovi – arancione oggi, domani chissà – mentre il contenuto resta spesso lo stesso: l’ambizione personale.
Anche il Polo Civico di Lamberti lo è, a parole, una rivoluzione. Eppure, se andiamo alla sostanza, non è nemmeno il libro dei sogni. Piuttosto, quello degli incubi. Perché la politica non ha bisogno di “posizioni creative”, ma di responsabilità. Non di proclami sull’incapacità altrui, ma di capacità provate e dimostrate.
E allora sì, l’iniziativa di Canale ci appare come l’ennesima spallata alla città. Non per cambiarla, ma per ritagliarsi uno spazio. Uno piccolo, magari, e neanche troppo comodo. Ma pur sempre uno spazio. E a Reggio – terra stanca e tradita – anche questo sa già di vecchio. Dietro il sorriso arancione, dietro il laboratorio, dietro i tavoli affollati di giovani promesse, si intravede ancora una volta lo spettro di un'operazione personale. Non una rivoluzione, ma un travestimento.
Eppure qualcosa di vero c’è. C’è la voglia di chi è tornato, la volontà di chi ha deciso di metterci la faccia, la passione di chi ancora ci crede. E sarebbe un errore ignorarla, o peggio liquidarla. Ma spetta a chi guida quel movimento – a Canale per primo – decidere se restare imprigionato nella retorica della novità o fare finalmente i conti col proprio passato. Con onestà, con coraggio. E soprattutto, con la città.
Reggio non ha bisogno di alchimie né di esperimenti: ha bisogno di risposte. E di chi abbia la schiena dritta per darle, anche quando non conviene.
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