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Platì decade il Sindaco Rosario Sergi: l’ultima sentenza, la prima lezione

Platì decade il Sindaco Rosario Sergi: l’ultima sentenza, la prima lezione
(Tra giustizia, autonomia e dignità. Una fine che è solo l’inizio)


Editoriale di Luigi Palamara

Nell'aria un silenzio che pesa più di mille proclami. A Platì, terra tormentata e tenace, quel silenzio è caduto ieri come un sipario. Rosario Sergi non è più sindaco. Non per dimissioni. Non per stanchezza. Ma per una sentenza — definitiva — pronunciata dopo anni di contese giudiziarie, sette gradi di giudizio, tre pronunciamenti della Suprema Corte.

Eppure, come spesso accade nelle storie che valgono la pena di essere raccontate, la giustizia amministrativa arriva con la lentezza della montagna che frana: rumorosa all’inizio, ma destinata a posarsi in un cumulo di polvere che confonde vittorie e sconfitte.

Sergi lascia, sì. Ma non si piega. Lo fa con parole che sanno più di Patria che di poltrona: «L’autogoverno deve restare un obiettivo prioritario». È qui che la cronaca lascia spazio alla Storia.

Platì, per decenni evocata nei salotti romani come emblema dell’Italia “difficile”, ora si ritrova a dover scegliere chi essere: periferia disillusa o laboratorio di democrazia. La fine di un sindaco non è mai solo la caduta di un uomo. È il termometro di un’intera comunità che si misura con le regole dello Stato, ma anche con il desiderio — ancestrale, a volte disperato — di essere padrona di sé.

“Una Calabria che rifiuta l’assistenzialismo e chiede libertà con dignità”.

“Il conflitto tra l’istituzione e il carisma”, tra l’apparato e la persona.

Mi chiedo: «Chi giudica i giudici? E chi veglia sulla volontà del popolo quando la giustizia arriva col passo del burocrate?»

Non si tratta di difendere Sergi o di condannarlo. Ma di porci una domanda più profonda: cosa rimane, quando un amministratore lascia e lo Stato resta solo una firma in calce?

A Platì oggi resta un vuoto. Ma anche un’occasione. Sarà il vicesindaco Giovanni Sarica a guidare la barca in attesa di nuove elezioni. Ma non bastano mani salde al timone se manca la rotta.

La rotta, oggi, la deve tracciare il popolo. E deve farlo senza nostalgia ma anche senza cieca obbedienza. L’autogoverno — parola usata troppo poco e troppo tardi in questo Paese — non è anarchia. È responsabilità.

E allora, forse, questa sentenza definitiva è solo l’inizio. L’inizio di una nuova consapevolezza per Platì. E, con essa, per ogni terra d’Italia che si è sentita ai margini.
Perché i margini, quando scelgono di camminare da soli, diventano centro.

Luigi Palamara.

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