"Il selfie che uccise il pregiudizio"
Editoriale di Luigi Palamara un paesano qualunque, che scrive con la penna e il cuore
Ci sono istanti in cui uno scatto – quel semplice gesto che oggi chiamiamo selfie – può valere quanto una rivoluzione. Non perché immortala un volto, ma perché sfida un tabù, uno di quelli radicati nelle viscere di un popolo abituato più al silenzio che al racconto, più all'ombra che alla luce.
Finalmente, dunque, un selfie. Ma non con chiunque. Con un paesano, Mario, una di quelle presenze costanti che crescono insieme a te come una pietra sul sentiero che non si sposta mai, neppure quando arriva la piena. Mario, uomo stimabile, sincero, familiare. Come un albero che ti ha visto bambino e oggi ti guarda da pari.
Eppure non era scontato. Perché da queste parti – specialmente a Roccaforte del Greco – mostrarsi è un "crimine". Fotografarsi, un oltraggio. Ridere in video, quasi una bestemmia. Il pregiudizio qui ha radici così profonde da nutrirsi della linfa stessa delle case, delle famiglie, dei mormorii dietro le finestre socchiuse.
E allora quel selfie è un atto di rottura. Una dichiarazione di indipendenza da una cultura del sospetto che preferisce la malignità alla confidenza, il pettegolezzo alla verità. È la frattura di un silenzio ipocrita, troppo spesso mascherato da dignità, che ha saputo solo isolare, mai unire.
Molti non si faranno mai ritrarre. Alcuni mai ti parleranno. E va bene così. Perché chi non ti vuole, non ti merita. E forse, chi non sa sorridere a un click, non sa nemmeno più sorridere alla vita. Perché anche il cuore – e con lui le storie – è morto per quei miasmi di cattiveria domestica, quell’invidia velenosa che, come la muffa, cresce nei muri e nei cuori chiusi.
Per fortuna esistono le eccezioni. Persone d’una gentilezza disarmante, d’un’umanità che sembra venire da un altro secolo, o da un’altra civiltà. Sono poche, ma bastano per non perdere del tutto la fede nell’essere umano. Anche in questa terra aspra, dove il sole scalda le pietre ma non sempre i cuori.
Viviamo, qui, un paradosso perfetto. Dove l’uomo, più che meditare, si crogiola nel guardare l’altro cadere. Dove la solitudine è diventata sport collettivo, e l’indifferenza, moneta corrente.
Intanto il tempo passa. Le case si svuotano. Le vite si spengono. E dove ancora batte un cuore, spesso batte solo per l’invidia.
Eppure, in quel selfie, c’è una scintilla. Piccola. Ma vera. Forse basta a far luce in questo buio pesto. Forse no. Ma vale la pena provarci.
Luigi Palamara
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@luigi.palamara "Il selfie che uccise il pregiudizio" Editoriale di Luigi Palamara un paesano qualunque, che scrive con la penna e il cuore Ci sono istanti in cui uno scatto – quel semplice gesto che oggi chiamiamo selfie – può valere quanto una rivoluzione. Non perché immortala un volto, ma perché sfida un tabù, uno di quelli radicati nelle viscere di un popolo abituato più al silenzio che al racconto, più all'ombra che alla luce. Finalmente, dunque, un selfie. Ma non con chiunque. Con un paesano, Mario, una di quelle presenze costanti che crescono insieme a te come una pietra sul sentiero che non si sposta mai, neppure quando arriva la piena. Mario, uomo stimabile, sincero, familiare. Come un albero che ti ha visto bambino e oggi ti guarda da pari. Eppure non era scontato. Perché da queste parti – specialmente a Roccaforte del Greco – mostrarsi è un "crimine". Fotografarsi, un oltraggio. Ridere in video, quasi una bestemmia. Il pregiudizio qui ha radici così profonde da nutrirsi della linfa stessa delle case, delle famiglie, dei mormorii dietro le finestre socchiuse. E allora quel selfie è un atto di rottura. Una dichiarazione di indipendenza da una cultura del sospetto che preferisce la malignità alla confidenza, il pettegolezzo alla verità. È la frattura di un silenzio ipocrita, troppo spesso mascherato da dignità, che ha saputo solo isolare, mai unire. Molti non si faranno mai ritrarre. Alcuni mai ti parleranno. E va bene così. Perché chi non ti vuole, non ti merita. E forse, chi non sa sorridere a un click, non sa nemmeno più sorridere alla vita. Perché anche il cuore – e con lui le storie – è morto per quei miasmi di cattiveria domestica, quell’invidia velenosa che, come la muffa, cresce nei muri e nei cuori chiusi. Per fortuna esistono le eccezioni. Persone d’una gentilezza disarmante, d’un’umanità che sembra venire da un altro secolo, o da un’altra civiltà. Sono poche, ma bastano per non perdere del tutto la fede nell’essere umano. Anche in questa terra aspra, dove il sole scalda le pietre ma non sempre i cuori. Viviamo, qui, un paradosso perfetto. Dove l’uomo, più che meditare, si crogiola nel guardare l’altro cadere. Dove la solitudine è diventata sport collettivo, e l’indifferenza, moneta corrente. Intanto il tempo passa. Le case si svuotano. Le vite si spengono. E dove ancora batte un cuore, spesso batte solo per l’invidia. Eppure, in quel selfie, c’è una scintilla. Piccola. Ma vera. Forse basta a far luce in questo buio pesto. Forse no. Ma vale la pena provarci. Luigi Palamara #mariorodà #sebastiano #luigipalamara #palamaraluigi #luispal #luipal #lupa #editoriale #roccafortedelgreco #aspromonte ♬ sonido original - Alonso Castillo
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