La Città del Sole (spenta)
L'Editoriale di Luigi Palamara
Troviamo un che di tragicamente comico, e dunque di profondamente calabrese, nel destino che ha voluto che il Palazzo del Consiglio regionale portasse il nome di Tommaso Campanella. Sì, proprio lui: il monaco di Stilo che sognò la Città del Sole, quella repubblica di saggi dove il potere era esercitato in nome della ragione e non dell’interesse. Oggi, quattro secoli dopo, quel nome campeggia su un edificio in cui la luce — non solo quella elettrica — pare spenta da tempo. Non per risparmio, intendiamoci, ma per mancanza di watt cerebrali.
E proprio oggi, 11 novembre 2025, giorno di San Martino, quando il mosto si fa vino e la gente di campagna brinda alla fine dell’autunno, a Catanzaro si brinda per un’altra vendemmia: l’insediamento della VI legislatura regionale. Solo che qui il vino non inebria, narcotizza. Si alza la campanella — simbolo che più beffardo non si potrebbe — e inizia un nuovo giro di giostra. Gli stessi attori, gli stessi copioni, solo un po’ più logori, un po’ più abili nel fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla.
Campanella, se potesse vedere, si rivolverebbe nella tomba di Stilo, chiedendosi in quale angolo della sua utopia si sia smarrita la Calabria. Lui che predicava la lotta contro tirannide, sofismi e ipocrisia, oggi troverebbe quegli stessi tre mali non solo vivi e vegeti, ma ben radicati, travestiti da virtù civiche. Qui l’ipocrisia si chiama “alleanza”, la tirannide “leadership”, e i sofismi sono l’unico linguaggio parlato nei corridoi del potere.
C’è chi applaude, chi s’inchina, chi si finge servitore del popolo mentre conta i propri voti e le proprie deleghe come un oste che fa la cassa a fine serata. E intanto la Calabria resta ferma, sospesa come un’auto con il motore acceso ma senza ruote. Ogni legislatura promette di essere quella del riscatto, ogni presidente quello del cambiamento. Poi la campanella suona, e il sipario cala sul solito spettacolo: parole, promesse, e l’arte antica di restare immobili muovendosi.
“Gli italiani amano la politica come spettacolo, purché reciti qualcun altro”. “Nessuno ha il coraggio di chiamare le cose col loro nome, perché farlo significa rischiare di restare soli”.
E allora diciamolo, almeno una volta, col nome giusto: la Città del Sole è spenta, e non c’è tecnico né assessore che possa sostituire la lampadina. Per riaccenderla servirebbe non un governo, ma un risveglio. Non un partito, ma un sussulto d’onestà.
Fino ad allora, si continuerà a suonare la Campanella — con la “C” maiuscola — per aprire le sedute e chiudere le coscienze.
Luigi Palamara
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