Libia. Quando la vergogna torna a casa.
Editoriale di Luigi Palamara
La realtà non ha più bisogno delle parole degli uomini, perché parla da sola, con la lingua tagliente dei simboli. La storia non avanza con l’incedere lento delle leggi, ma col passo improvviso della vergogna. E l’Italia, nostra amata, si è ritrovata a guardarsi nello specchio di Bengasi e a non riconoscere il proprio volto.
Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, è stato respinto dalla Libia. Fermato all’aeroporto come un passeggero qualunque, rispedito indietro come un clandestino qualsiasi. Da quella stessa Libia con cui ha stretto mani e firmato accordi per trattenere disperati nei deserti. Da quella Libia che abbiamo trattato come terra di comodo, finta alleata per i nostri comodi sogni di ordine. Ma l’ordine senza giustizia è solo forza muta.
Corrado Alvaro scriveva che “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.” Ed ecco che vivere con coerenza, in questi tempi, pare davvero un lusso per pochi. Un ministro viene respinto per “ingresso illegale”: la parola che ha rimbombato per anni nei suoi discorsi torna ora a bussare alla sua porta, fredda, impersonale, implacabile.
Non è più questione di politica. È una questione d’anima. Perché se un Paese non riconosce più la differenza tra forza e giustizia, tra comando e legittimità, allora si ritrova nudo quando gli altri glielo fanno notare. Non bastano più le parole d’ordine, gli slogan, le promesse di fermezza. Serve la dignità. E questa non si compra con i contratti internazionali né con le passerelle istituzionali.
La Libia ci ha rimandato indietro il nostro ministro, come si restituisce un oggetto non voluto. E noi siamo rimasti zitti. Perché quel gesto è più grande della polemica politica. È uno specchio rotto. È una lezione che riguarda tutti: chi governa, chi osserva, chi finge di non sapere.
Non ci si umilia solo nei momenti di sconfitta. Ci si umilia quando si viene messi davanti alle proprie contraddizioni, e si è troppo orgogliosi per ammetterle.
Ora resta il silenzio. Quel silenzio in cui si affacciano le coscienze, come contadini sulla soglia, muti, davanti a una terra arida. E l’Italia, oggi, è quella terra: un Paese che ha voluto giocare con la forza, e ha perso la faccia.
Ma soprattutto ha perso qualcosa di più prezioso: l'onore della coerenza.
E noi, spettatori non innocenti, siamo qui a guardare. Con quel tipo di vergogna che non fa rumore, ma brucia dentro come un sole d’inverno.
Luigi Palamara
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