La Russa ... Geronimo presidente dell'ACI, Ignazio La Russa presidente del Senato. L’Italia dei cognomi, non degli uomini.
di Luigi Palamara
Ogni civiltà muore due volte: prima nei costumi, poi nelle istituzioni. E spesso, quando ce ne accorgiamo, è troppo tardi. La nomina di Geronimo La Russa alla presidenza dell’ACI è uno di quei momenti in cui un Paese dovrebbe fermarsi, guardarsi allo specchio e chiedersi: siamo ancora una repubblica fondata sul lavoro, sul merito, sulle capacità? O siamo tornati, silenziosamente, a una società delle parentele, delle casate, delle dinastie?
C’è qualcosa di tragicamente familiare — e non solo in senso genealogico — in questa vicenda. Un uomo viene eletto alla guida di un ente pubblico di importanza strategica, non per concorso, non per sfida aperta tra competenze, ma perché votato da un consesso ristretto, fidelizzato, cooptato. E non un uomo qualunque: il figlio del presidente del Senato.
Questa non è un’accusa. È un fatto.
E i fatti, in democrazia, hanno un peso che dovrebbe superare il rumore delle narrazioni e delle giustificazioni. È stato detto che l’elezione è avvenuta “secondo le regole”. Certo. Ma quando le regole sono costruite per non far vincere nessuno al di fuori della cerchia, non si chiama democrazia. Si chiama oligarchia.
Il potere, in Italia, ha smesso da tempo di vergognarsi. Non si nasconde più. Non si giustifica. Non si maschera. Si mostra anzi con orgoglio, imponendo i propri figli, i propri amici, i propri compagni di cordata. E guai a chi osa criticare: viene tacciato di invidia sociale, di livore, di passatismo.
Ma non è invidia chiedere che chi guida le istituzioni sia il migliore, e non il più vicino.
Non è passatismo pretendere che le cariche pubbliche siano il frutto di una competizione aperta, visibile, trasparente.
È il contrario: è visione civile. È spirito repubblicano.
Questo episodio ha segnato un salto di qualità. Non per l'importanza intrinseca dell’ACI — pur rilevante — ma per il modo in cui il potere ha agito: con sfacciata naturalezza. Un emendamento ad personam per decapitare il presidente uscente. Un commissariamento per consolidare il controllo. Una votazione interna costruita come plebiscito. E infine, l’elezione del “nome giusto”, il più noto, il più legato.
Tutto liscio. Tutto normale. Tutto legale.
Eppure qualcosa, in molti di noi, si è rotto. Forse in silenzio. Forse senza grida. Ma si è rotto.
Perché questo non è solo un nome. È un segnale.
Il segnale che la meritocrazia, quella vera, quella che dovrebbe portare in alto gli sconosciuti capaci e non gli eredi benedetti, è stata messa ai margini.
È stata umiliata.
È stata, ancora una volta, esclusa dalla stanza dove si decidono le cose.
E se lo accettiamo senza reagire, senza indignarci, allora il problema non è chi viene nominato.
Il problema siamo noi.
Luigi Palamara Tutti I diritti riservati
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