Il Ponte, il vero affare è la penale da un miliardo e mezzo di euro.

Il Ponte, il vero affare è la penale da un miliardo e mezzo di euro.
L'Editoriale di Luigi Palamara


Qualcosa di stonato e di profondamente sospetto c'è nella musica trionfale che accompagna la vicenda del Ponte sullo Stretto. Un’opera che, a furia di proclami, è diventata più un’idea mitologica che un progetto ingegneristico. Da decenni lo promettono, lo rinviano, lo riesumano come una reliquia politica da campagna elettorale. Ma adesso, a ben vedere, il vero miracolo non è più il ponte che unisce la Sicilia al continente. È la penale che unisce il potere all’impresa.

Sì, perché dietro la retorica dell’Italia che costruisce, che “collega”, che “riparte”, si intravede un altro tipo di ponte: quello che porta dritto al miliardo e mezzo di euro che lo Stato dovrebbe sborsare nel caso di un recesso o di un annullamento definitivo del contratto. Una cifra che non è più garanzia, ma obiettivo. E che spiega forse meglio di qualsiasi conferenza stampa l’inquieta solerzia con cui Webuild — pur prima il niet della Corte dei Conti — ha iniziato e continua a muoversi, a cercare personale, a far sapere che il treno è partito, e che chi non sale rischia di restare indietro.

Non è solo una questione di legittimità giuridica — anche se lì ci sarebbe parecchio da dire. È una questione di onestà intellettuale. Di chiarezza verso i cittadini che, da contribuenti, potrebbero ritrovarsi a finanziare non un ponte, ma un indennizzo. Perché se davvero il contratto prevede che, in caso di rinuncia, lo Stato debba pagare una penale, allora bisognerebbe chiedersi: chi protegge chi? Lo Stato tutela l’interesse pubblico o blinda i profitti privati?

Gli esperti — quelli non ingaggiati da nessuno — parlano di una forzatura. E noi, nel dubbio, preferiamo crederci. Perché troppo spesso in Italia il confine tra l’opera e l’affare si è fatto sottile come un cavo d’acciaio, di quelli che dovrebbero reggere il ponte stesso.

E allora, permetteteci il sospetto: che il vero business non sia la costruzione del Ponte, ma il suo fallimento ben remunerato. Che l’opera serva più da pretesto contabile che da visione infrastrutturale. E che, ancora una volta, l’Italia rischi di essere un Paese dove i ponti non si costruiscono per unire le sponde, ma per collegare il pubblico denaro alle casse private.

Finché qualcuno non avrà il coraggio — politico e morale — di dirci la verità, questa resterà la domanda sospesa sullo Stretto: chi deve davvero attraversare quel ponte? Noi, o i miliardi?

Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati

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@luigi.palamara

INTERVISTA QUASI PROFETICA A VINCENZO SACCÀ DEL 13 AGOSTO 2025 Il Ponte, il vero affare è la penale da un miliardo e mezzo di euro. L'Editoriale di Luigi Palamara Qualcosa di stonato e di profondamente sospetto c'è nella musica trionfale che accompagna la vicenda del Ponte sullo Stretto. Un’opera che, a furia di proclami, è diventata più un’idea mitologica che un progetto ingegneristico. Da decenni lo promettono, lo rinviano, lo riesumano come una reliquia politica da campagna elettorale. Ma adesso, a ben vedere, il vero miracolo non è più il ponte che unisce la Sicilia al continente. È la penale che unisce il potere all’impresa. Sì, perché dietro la retorica dell’Italia che costruisce, che “collega”, che “riparte”, si intravede un altro tipo di ponte: quello che porta dritto al miliardo e mezzo di euro che lo Stato dovrebbe sborsare nel caso di un recesso o di un annullamento definitivo del contratto. Una cifra che non è più garanzia, ma obiettivo. E che spiega forse meglio di qualsiasi conferenza stampa l’inquieta solerzia con cui Webuild — pur prima il niet della Corte dei Conti — ha iniziato e continua a muoversi, a cercare personale, a far sapere che il treno è partito, e che chi non sale rischia di restare indietro. Non è solo una questione di legittimità giuridica — anche se lì ci sarebbe parecchio da dire. È una questione di onestà intellettuale. Di chiarezza verso i cittadini che, da contribuenti, potrebbero ritrovarsi a finanziare non un ponte, ma un indennizzo. Perché se davvero il contratto prevede che, in caso di rinuncia, lo Stato debba pagare una penale, allora bisognerebbe chiedersi: chi protegge chi? Lo Stato tutela l’interesse pubblico o blinda i profitti privati? Gli esperti — quelli non ingaggiati da nessuno — parlano di una forzatura. E noi, nel dubbio, preferiamo crederci. Perché troppo spesso in Italia il confine tra l’opera e l’affare si è fatto sottile come un cavo d’acciaio, di quelli che dovrebbero reggere il ponte stesso. E allora, permetteteci il sospetto: che il vero business non sia la costruzione del Ponte, ma il suo fallimento ben remunerato. Che l’opera serva più da pretesto contabile che da visione infrastrutturale. E che, ancora una volta, l’Italia rischi di essere un Paese dove i ponti non si costruiscono per unire le sponde, ma per collegare il pubblico denaro alle casse private. Finché qualcuno non avrà il coraggio — politico e morale — di dirci la verità, questa resterà la domanda sospesa sullo Stretto: chi deve davvero attraversare quel ponte? Noi, o i miliardi? Luigi Palamara Tutti i diritti riservati Reggio Calabria 30 ottobre 2025

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@luigi.palamara LA STORIA DEL PONTE IN 3 INTERVISTE. IMPERDIBILE. Il Ponte, il vero affare è la penale da un miliardo e mezzo di euro. L'Editoriale di Luigi Palamara Qualcosa di stonato e di profondamente sospetto c'è nella musica trionfale che accompagna la vicenda del Ponte sullo Stretto. Un’opera che, a furia di proclami, è diventata più un’idea mitologica che un progetto ingegneristico. Da decenni lo promettono, lo rinviano, lo riesumano come una reliquia politica da campagna elettorale. Ma adesso, a ben vedere, il vero miracolo non è più il ponte che unisce la Sicilia al continente. È la penale che unisce il potere all’impresa. Sì, perché dietro la retorica dell’Italia che costruisce, che “collega”, che “riparte”, si intravede un altro tipo di ponte: quello che porta dritto al miliardo e mezzo di euro che lo Stato dovrebbe sborsare nel caso di un recesso o di un annullamento definitivo del contratto. Una cifra che non è più garanzia, ma obiettivo. E che spiega forse meglio di qualsiasi conferenza stampa l’inquieta solerzia con cui Webuild — pur prima il niet della Corte dei Conti — ha iniziato e continua a muoversi, a cercare personale, a far sapere che il treno è partito, e che chi non sale rischia di restare indietro. Non è solo una questione di legittimità giuridica — anche se lì ci sarebbe parecchio da dire. È una questione di onestà intellettuale. Di chiarezza verso i cittadini che, da contribuenti, potrebbero ritrovarsi a finanziare non un ponte, ma un indennizzo. Perché se davvero il contratto prevede che, in caso di rinuncia, lo Stato debba pagare una penale, allora bisognerebbe chiedersi: chi protegge chi? Lo Stato tutela l’interesse pubblico o blinda i profitti privati? Gli esperti — quelli non ingaggiati da nessuno — parlano di una forzatura. E noi, nel dubbio, preferiamo crederci. Perché troppo spesso in Italia il confine tra l’opera e l’affare si è fatto sottile come un cavo d’acciaio, di quelli che dovrebbero reggere il ponte stesso. E allora, permetteteci il sospetto: che il vero business non sia la costruzione del Ponte, ma il suo fallimento ben remunerato. Che l’opera serva più da pretesto contabile che da visione infrastrutturale. E che, ancora una volta, l’Italia rischi di essere un Paese dove i ponti non si costruiscono per unire le sponde, ma per collegare il pubblico denaro alle casse private. Finché qualcuno non avrà il coraggio — politico e morale — di dirci la verità, questa resterà la domanda sospesa sullo Stretto: chi deve davvero attraversare quel ponte? Noi, o i miliardi? Luigi Palamara Tutti i diritti riservati Reggio Calabria 30 ottobre 2025 #pontesullostretto #reggiocalabria #messina #matteosalvini #pietrociucci ♬ suono originale - Luigi Palamara

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