Il Ponte, la Corte dei Conti e l’Italia che non sa più dove mettere i pilastri
L'Editoriale di Luigi Palamara
Questa è un’Italia che si divide sempre, anche quando si tratta di cemento. E non parlo del cemento armato, ma di quello mentale, che si deposita nei corridoi della politica e nei palazzi della burocrazia come una crosta di calcare sul rubinetto dello Stato.
L’ultima contesa — il Ponte sullo Stretto — non è solo una storia di ingegneria, ma di anatomia: quella di un Paese che non riesce più a distinguere la spina dorsale dal midollo delle proprie istituzioni.
-La Corte dei Conti ha parlato, con la voce piatta e precisa della legalità: “Abbiamo agito sui profili giuridici, non politici”. Una frase da manuale, che in un Paese normale sarebbe una tautologia, e invece da noi suona come un atto di resistenza. Perché qui, dove ogni decisione viene letta con la lente deformante del sospetto, il diritto è diventato opinione e la legge una faccenda di tifo.
Da una parte i magistrati contabili, che ricordano che la Costituzione — quella che tutti invocano e pochi leggono — affida loro il compito di vigilare sulla spesa pubblica. Dall’altra, un governo che reagisce come un condominio scosso da una multa: invece di leggere il verbale, se la prende col vigile.
La premier Meloni parla di “invasione di campo”, Tajani annuisce, Salvini ringhia e promette cantieri a febbraio. È il solito copione: quando la realtà intralcia la propaganda, la colpa è sempre di qualcun altro.
Eppure, nel coro stonato del centrodestra, si alza qualche voce fuori dal solito spartito. Zaia, il più nordico dei leghisti, invita al dialogo. Barelli, con prudenza da vecchio democristiano, ammette che la Corte “ha fatto il suo lavoro”. Piccole crepe in un muro di slogan. Ma crepe che dicono molto: c’è ancora, in certe pieghe della politica, la consapevolezza che uno Stato non si governa a colpi di post o di ruspa verbale.
La verità — spiace dirlo — è che il Ponte sullo Stretto non è solo un’opera pubblica: è una bandiera, un simbolo da agitare contro chi osa ricordare che la legge viene prima del calcestruzzo. Salvini lo sa benissimo. Ecco perché, pur di veder partire i cantieri, è disposto a trasformare un atto di controllo in un atto di guerra.
Ma la guerra al diritto è la più pericolosa di tutte, perché si combatte con le parole e si perde con i fatti.
C’è poi la voce delle opposizioni, che non perdono occasione per moralizzare, spesso dimenticando che anche loro, quando governavano, hanno collezionato ricorsi, ritardi e sentenze. Ma stavolta hanno ragione su un punto: non è accettabile che chi governa tratti le istituzioni di garanzia come intralci personali. Lo Stato non è un’azienda privata né un cantiere elettorale, e la legalità non si misura a metro quadro.
Forse dovremmo smettere di discutere del Ponte come di un miracolo d’acciaio e cominciare a parlare del vero ponte che manca: quello tra il potere e il limite, tra l’ambizione e la legge.
Un Paese civile si costruisce sopra pilastri di diritto, non sopra i capricci dei ministri o gli sfoghi dei social.
E finché continueremo a confondere la giustizia con la burocrazia e la critica con l’offesa, resteremo un popolo di architetti del nulla: capaci di progettare ponti lunghi tre chilometri, ma incapaci di costruire il rispetto che li regge.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria 30 ottobre 2025
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