Io giornalista e il mestiere di dare fastidio.
L'Editoriale di Luigi Palamara
Do proprio fastidio. È questa la prima verità: fare il giornalista, oggi, è un mestiere che stanca il sangue e la pazienza. Non per la fatica di cercare la notizia — quello è il sale — ma per la molestia quotidiana degli aboliti: piccoli delinquenti da strapazzo, borghesi invidiosi che si travestono da cittadini irreprensibili, e una moltitudine di mediocri che confondono il chiacchiericcio con il discorso pubblico.
Vi stupisce? Non dovrebbe. Chi non sopporta la luce si adopera per spegnerla. Se fai il tuo lavoro con cura, con rigore, se alzi il livello, subito diventi fastidioso: non per quello che dici, ma perché dimostri che esiste una misura, un gusto, un decoro. E questo infastidisce i vigliacchi. Reagiscono come i felini alla luce — strisciano, sputano, cercano scappatoie. Pensano di avere ragione perché urlano più forte del buon senso.
Viviamo in una città Reggio Calabria che sa essere piccola con un’arte quasi sublime. Non parlo solo dei difetti noti — l’inefficienza, la lentezza — ma di una pochezza morale che diventa sistema: un briciolo di potere e si alza il dito, non per costruire ma per condannare. Si erge il processo pubblico, la gogna morale, l’alzata di mano che non cerca verità ma applausi. “Giudice a Berlino” — l’auspicio è un modo garbato per dire che vorremmo un giudice che sappia valutare e non inchinarsi al rumore del furbetto di turno.
Ogni giorno è una battaglia contro le cosiddette “persone civili”. È tremendo il modo in cui si possono ingannare la Giustizia e le istituzioni, quando le buone maniere diventano copertura per l’astuzia. Chi deve sorvegliare spesso si piega alla comodità, e la macchina pubblica, senza persone integre al timone, si inceppa e ripete il vizio: premiamo gli incapaci, premiamo gli arruffoni, chiariamo che la mediocrità non paga mai — e invece qui ricicla potere.
Io provo a smascherare. È un lavoro di taglio e limatura: togli via le menzogne, scopri i furti di reputazione, mostri le mani sporche. Ma c’è una frase che pesa più d’ogni ellissi: se dalle istituzioni non trovi persone vere, il percorso deviato continua. È un fatto. Non è retorica. È la descrizione di un meccanismo che premia il viscido, l’arraffone per mestiere, il fallito che ha fatto della furbizia una professione.
Non chiedo vendetta. Non la voglio. Chiedo Giustizia — con la G maiuscola, quella che non si accontenta delle illusioni, che pesa i fatti, che non si piega al conformismo. Pretendo che si ristabilisca quella misura che separa il coraggioso dall’opportunista, il giornalista che lavora dall’imbroglione che lucra sul non lavoro.
Perché alla fine non è una questione personale. È una domanda semplice: vogliamo una città in cui l’onestà intellettuale conti ancora qualcosa, o preferiamo continuare a eleggere l’astuzia come virtù nazionale? Io scelgo: per la verità, per la decenza, per il diritto di non essere messo a tacere da chi non ha il coraggio di affrontare la luce.
Luigi Palamara
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