Dalla matita rossa e blu a quella imperfetta. Il viaggio da Italo a Giuseppe Falcomatà

Dalla matita rossa e blu a quella imperfetta. Il viaggio da Italo a Giuseppe Falcomatà 
L'Editoriale di Luigi Palamara 

Una Calabria che non urla, che non si esibisce, che non cerca applausi esiste ancora. È la Calabria delle mattine lente, dei caffè amari bevuti nei bar di periferia, delle parole dette piano per non ferire. È quella che vive nel gesto semplice di un uomo che si china a raccogliere un foglio caduto, o che torna a casa la sera stanco ma in pace con se stesso.
È in quella Calabria che bisogna cercare il senso più profondo della matita rossa e blu di Italo Falcomatà e della matita imperfetta di suo figlio Giuseppe.

Perché non c’è niente di più calabrese, di più umano, del tentare di fare bene sapendo che la perfezione non appartiene a noi.
Italo Falcomatà lo sapeva. Prima che sindaco, era un professore di lettere: uno di quelli che amavano il profumo del gesso e dei quaderni, che vedevano nei ragazzi non numeri ma storie in formazione.
La sua matita — quella che portava in tasca anche quando entrò a Palazzo San Giorgio — era metà rossa e metà blu: due colori per due gesti, due modi di amare la sua città.

Con il rosso segnava le ferite: le buche nelle strade e nei cuori, la rassegnazione che corrodeva le anime, le ingiustizie che sembravano parte del paesaggio. Con il blu, invece, sottolineava le virtù: la bontà testarda dei reggini, i sorrisi dei bambini, la voglia di riscatto che fermentava tra le macerie del disincanto.
Era un sindaco che non aveva bisogno di slogan. Parlava come scriveva: piano, ma in modo che le parole restassero.

C’era, in lui, la convinzione che una città si governa come si educa una classe: con fermezza e tenerezza insieme.
E quando diceva “Reggio deve tornare a credere in sé stessa”, non era retorica: era la voce di un maestro che crede ancora nei suoi alunni, anche quando fanno chiasso o si distraggono.

Poi venne Giuseppe, suo figlio.
Nei suoi occhi — diversi, più moderni, più inquieti — si legge la stessa eredità morale, ma anche il peso di chi deve camminare in un solco tracciato da un gigante.
Giuseppe non ha la penna rossa e blu: ha una matita imperfetta, come la chiama lui, e la usa con pudore. Sa che la perfezione è sterile, che la politica è un mestiere che sporca le mani, che chi non sbaglia non ha mai provato a cambiare nulla.

Quando parla, non cerca di imitare suo padre: lo continua, lo traduce nel linguaggio di un’epoca più rumorosa e più confusa.
Dice che la penna perfetta è quella che non ha mai scritto. È una frase che sembra uscita da un quaderno di scuola, ma dentro ha la saggezza di chi ha imparato a cadere e rialzarsi.

E forse, se Italo fosse ancora qui, gli sorriderebbe. Gli direbbe che anche gli errori, a volte, sono lezioni. Che la politica è un’arte del correggere, non del cancellare.
Perché un uomo — e un sindaco — non è giudicato dai tratti netti, ma dai tentativi, dalle revisioni, dalle righe riscritte cento volte prima di trovare quella giusta.

Così, padre e figlio si incontrano su un ideale banco di scuola.
L’uno, Italo, con la sua matita rossa e blu: segno di rigore e di speranza, simbolo di un Sud che voleva imparare a scrivere meglio la propria storia.
L’altro, Giuseppe, con la sua matita imperfetta: simbolo di un tempo più fragile, dove l’umiltà è l’unica forma possibile di resistenza.

Due strumenti diversi, ma la stessa lezione: la politica come mestiere dell’imperfezione, come coraggio di restare umani in mezzo al frastuono.
In un’Italia che sembra aver dimenticato il valore del silenzio e dell’ascolto, loro ricordano che ogni tratto lasciato sulla carta — anche il più incerto — può essere un segno di verità.

E allora, ben venga la matita consumata, quella che ha disegnato, corretto, tremato tra le dita.
Perché solo chi ha scritto davvero — e non chi tiene la penna immacolata nel taschino — può dire di aver fatto politica senza vergognarsene.

E forse, in fondo, tutta questa storia si riassume in una sola immagine:
un padre che corregge con due colori e un figlio che continua a scrivere con uno solo, ma senza smettere di credere che la politica, come la vita, valga solo se lascia un segno.

Luigi Palamara 
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