Falcomatà contro tutti. E soprattutto contro il suo partito?
L'Editoriale di Luigi Palamara
Ci sono guerre che non si combattono contro l’avversario, ma contro i propri compagni di viaggio. E spesso sono le più sanguinose. Quella tra Giuseppe Falcomatà e il Partito Democratico non è una lite di corridoio, né una semplice divergenza tattica: è un conflitto di visione, di cultura politica, forse persino di carattere.
Un conflitto che da anni lacera il centrosinistra calabrese e oggi deflagra nel suo atto finale: l’ultimo rimpasto di Giunta, vissuto dai vertici del PD come un affronto personale, come l’ennesimo gesto di ribellione di un sindaco che non si piega.
Falcomatà viene descritto come “l’uomo solo al comando”, il sindaco solipsista, l’egocentrico che decide da sé. Forse è vero. Ma bisognerebbe anche chiedersi perché sia rimasto solo. Perché un partito che da lui ha avuto tutto — consenso, vittorie, sopravvivenza elettorale — abbia scelto di isolarlo, di tenerlo ai margini, fino a tentare di espellerlo dal gioco politico.
Alle ultime regionali, il PD lo ha combattuto come si combatte un avversario, non un alleato. E pochi giorni fa, in Consiglio regionale, l’ha lasciato fuori da ogni ruolo. Un atto politico che sa più di vendetta che di strategia.
Ma qui la domanda, la vera domanda, è un’altra: a chi serve questa guerra?
Serve alla Calabria, che si ritrova un centrosinistra spaccato e un Comune in piena tempesta? Serve a un partito che non vince da anni, se non grazie proprio alle vittorie di Falcomatà? O serve solo all’eterno gioco di potere di chi nel PD confonde la disciplina con l’ostilità, la fedeltà con l’obbedienza cieca?
La politica è una guerra tra vanità, ma la buona politica è quella in cui almeno una vanità è messa al servizio di una causa. Falcomatà, nel bene e nel male, una causa l’ha sempre avuta: la sua città.
Può aver commesso errori — e li ha commessi — ma non gli si può negare l’autonomia. Non è stato il sindaco perfetto, ma nemmeno il burattino che il suo partito avrebbe voluto. Ha governato, spesso controvento, in una terra dove la politica preferisce l’obbedienza alla competenza.
“Lasciatelo combattere, o almeno non sparategli alle spalle”. Perché ciò che il PD calabrese sta facendo non è solo un regolamento di conti interno, ma un suicidio politico in diretta.
Le uniche vittorie che il PD può oggi vantare in Calabria hanno un solo nome: Giuseppe Falcomatà. Tutto il resto è un cimitero di sconfitte, tre di fila, e altre in arrivo. Eppure il partito sembra più impegnato a demolire il suo unico vincente che a costruire una prospettiva credibile per i cittadini.
Certo, Falcomatà non è un santo né un martire. È un politico di temperamento, testardo, forse troppo sicuro di sé. Ma in un panorama di mediocrità e conformismo, la sua autonomia appare come un vizio solo a chi ha smarrito l’idea stessa di leadership.
E allora la domanda torna, inevitabile: chi teme di più il PD — il centrodestra o se stesso?
Perché questa guerra, che da anni consuma il suo fronte interno, non serve a nessuno. Non serve a Reggio Calabria, non serve ai democratici, e alla lunga non servirà neppure a Falcomatà. Servirà solo a lasciare un vuoto.
E nei vuoti, si sa, la politica muore.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria 13 novembre 2025
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