Falcomatà, il Capitano che tiene la rotta: la saggezza politica nella tempesta.
L'Editoriale di Luigi Palamara
Una città, Reggio Calabria, che continua ostinatamente a recitare la sua tragedia greca come se il sipario non dovesse calare mai. A Palazzo San Giorgio non si consuma una crisi politica: si consuma, piuttosto, l’ennesimo capitolo di una storia che affonda le radici nella fatalità e nell’incapacità tutta meridionale di liberarsi dal proprio destino.
Qui non esistono fari che guidano i naufraghi – come si illudono i romantici della domenica. Qui esiste un faro che scricchiola come un vecchio dente nella notte, che non promette porti sicuri ma rammenta agli uomini la loro fragilità, la loro abissale incapacità di stare in piedi davanti al vento.
Falcomatà, il “quasi decaduto” come lo definirebbe qualche cronista con vena di sadismo, continua a navigare in questo buio da capitano che ha perso la rotta ma non il timone. Lo guardi e vedi quell’ostinazione tipica di chi ha imparato presto che comandare è un atto di solitudine, non di gloria. Fino a ieri era rigido, quasi orgoglioso dell’uragano che lo sferzava. Oggi appare piegato, come se la tempesta gli avesse insegnato l’arte dolorosa del silenzio.
E allora sacrifica i suoi, li offre come antichi animali sull’altare della politica, nella speranza di placare un mare che non si placa mai. Un gesto che sa di Sud, di Calabria vera: nessuno ti ringrazia, nessuno ti assolve; semplicemente, si pretende.
Il Pd, che di eroico non ha neanche la postura, ripone nel cassetto la minaccia dell’azzeramento della Giunta. Non è misericordia: è paura. Le elezioni sono là, sospese come pioggia sulle grondaie, e nessuno ha voglia di provocare un’altra ondata mentre la barca ha già un fianco sbriciolato. E allora s’inventano questa fragile arte della concessione dimezzata: ti do una mano, ma te la porgo con la diffidenza del giocatore d’azzardo che sa perfettamente che l’altro bara.
E come sempre accade in Italia – questo Paese che ama illudersi di essere moderno mentre resta incollato ai suoi riti barbarici – il prezzo lo pagano i sacrificati. Brunetti viene spogliato del titolo di vicesindaco come si leva una medaglia a un soldato che non ha sbagliato nulla. Caracciolo, imbarcata da poco, torna giù, nella stiva. Non è crudeltà, è abitudine. La politica ha sempre fame e mastica i suoi senza fare rumore.
Al loro posto compare Mimmetto Battaglia, traghettatore designato fino alle urne. Una scelta tiepida, che non entusiasma il Pd, il quale avrebbe preferito Marino. Ma l’Italia – e il Sud più di tutti – decide sempre nel buio: non ciò che è giusto, ma ciò che serve a non affondare domani mattina.
Riemerge poi il nome di Anna Briante espressione di Seby Romeo, pesante come un’ancora lasciata cadere all’improvviso. La si è voluta riportare in Giunta, forse per rattoppare un passato strappato con troppa brutalità. Ma lei ha detto no. Un no che non urla ma che pesa. E le donne del Sud, quando dicono no, è come se incidessero una lapide.
Intanto la tempesta continua ma con un rumore diverso. Non il fragore delle onde che si sbriciolano, ma un sussurro, un ammutolimento: il momento in cui i comandanti tentano di cambiare rotta senza farsi vedere dai marinai. Se la notte porterà consiglio – e la notte porta sempre consigli che il giorno smentisce – forse si troverà una tregua. Una tregua fragile, costruita più sui non detti che sulle dichiarazioni.
Sabato 29 novembre 2025 il Consiglio comunale dovrebbe riprendere. Dovrebbe. Perché qui, più che altrove, il condizionale è la grammatica degli onesti. E basterà un soffio di orgoglio fuori posto per mandare tutto a picco, come sempre.
Il faro, sì, lampeggia ancora. Ma non si è capito se è un invito alla salvezza o l’ultimo grido prima del naufragio.
E in fondo, diciamolo, a Reggio la differenza fra la salvezza e il naufragio è sempre stata questione di un lampo. E questo Giuseppe Falcomatà lo ha capito da tempo.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria 28 novembre 2025
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