Giustizia, non vendetta: il patto tradito che dobbiamo ricostruire.

Giustizia, non vendetta: il patto tradito che dobbiamo ricostruire.
L'Editoriale di Luigi Palamara


Non è vero che la giustizia italiana è morta. È ferita, sì. Umiliata, certo. Ma non è morta.
Muore solo ciò che non ha più chi ci crede, e per fortuna in questo Paese esistono ancora giudici, pubblici ministeri e avvocati che ogni giorno provano a servire la legge come si serve una fede, non un mestiere.

Però qualcosa si è spezzato.
Si è spezzata la fiducia, e con essa il rispetto. Oggi ci si parla da nemici, non da servitori dello stesso ideale. Il giudice guarda il pubblico ministero con sospetto, il pubblico ministero teme l’avvocato, e l’avvocato, povero Cristo, pensa di essere accerchiato da un potere che non lo ascolta.
In questa guerra di sguardi e di diffidenze, il cittadino resta solo, in un’aula che gli pare fredda come una cella.

Allora arrivano i profeti della separazione: dividiamo le carriere, separiamo i corpi, così tornerà la giustizia.
No, non tornerà. Perché la giustizia non è un muro che separa, è un ponte che unisce.
Non è una questione di uffici diversi, ma di coscienze. Si può avere la separazione perfetta tra giudici e pubblici ministeri e restare comunque corrotti, vili, faziosi. Oppure si può condividere un corridoio e restare onesti, se si crede davvero nella legge come ultima frontiera della libertà.

Non è lo schema che salva l’uomo: è l’uomo che salva lo schema.
Calamandrei lo diceva nel dopoguerra, con una voce che oggi nessuno ascolta più: la giustizia vive se chi la amministra la sente “come una religione laica”. Non come una carriera, non come un’arena dove vincere, ma come un altare dove rispondere alla propria coscienza prima ancora che al proprio ruolo.

Sì, la giustizia italiana ha commesso errori enormi. Sì, ci sono magistrati che hanno abusato del potere e avvocati che lo hanno venduto. Ma se oggi vogliamo salvarla, non possiamo farlo costruendo nuove caste.
Serve un patto nuovo, un giuramento silenzioso tra chi accusa, chi difende e chi giudica: quello di rispettarsi, di ascoltarsi, di ricordare che nessuno di loro è il protagonista. Il protagonista è solo uno: il cittadino.

Quando il giudice tornerà a guardare l’imputato non come un numero ma come una persona, quando il pubblico ministero smetterà di cercare colpevoli e tornerà a cercare la verità, quando l’avvocato difenderà senza urlare ma con la dignità di chi crede nella giustizia, allora sì, potremo dire di averla ricostruita.

Non serve separare le carriere. Serve ricucire le coscienze.
E questo, purtroppo, nessuna riforma lo può votare.

Luigi Palamara
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