Gli occhi di Gattuso, dove l’Italia vede la sua paura e la sua speranza

Gli occhi di Gattuso, dove l’Italia vede la sua paura e la sua speranza
L'Editoriale di Luigi Palamara 

Un’Italia che si illude, ancora e sempre, di essere un Paese adulto. Poi basta una sera, una panchina improvvisata, un uomo chiamato più per disperazione che per scelta, e ci accorgiamo che siamo rimasti i soliti: eterni cercatori di salvatori, purché spuntino dagli scantinati della nostra storia, all’ultimo minuto utile.

Questa volta, il destino — o la nostra incapacità di scegliere — ci ha consegnato Rino Gattuso. E gli italiani, popolo di meteorologi dell’anima, hanno cominciato a scrutargli gli occhi come si scruta il cielo prima del temporale. Per capire se verrà pioggia, grandine o un raggio di sole sufficiente a tirare avanti un altro giorno.

In quegli occhi c’è una luce dura, quasi sospettosa. La luce di chi è cresciuto sapendo che nessuno verrà a tirarti su se cadi. Ma c’è anche un tremito, appena percettibile, che tradisce la consapevolezza del rischio. È un ossimoro umano, ed è lì che l’Italia riconosce il proprio volto: fragile, testarda, sempre sull’orlo della disfatta eppure incapace di distogliere lo sguardo dalla battaglia.

Ma dentro quello sguardo ce n’è un altro, più antico: quello della Calabria. Non la Calabria da depliant turistico, ma quella considerata un peso, una zavorra che il Paese ha sopportato più che abbracciato. Eppure quel “peso” ha riempito il mondo: l’Aspromonte che trova eco nelle praterie del Colorado, il profumo di bergamotto che si mischia al vento dell’Australia, i ricordi dei padri che riaffiorano nei quartieri argentini di Buenos Aires.

I calabresi partono, sì. Ma non se ne vanno. Portano con sé orgoglio, dignità, e una testardaggine che rasenta la preghiera. Cercano un riscatto che quasi sempre rimane una promessa lontana, ma lo coltivano per i figli, come un seme che forse germoglierà quando loro non ci saranno più. È l’antica malinconia, quella consapevolezza muta di appartenere a una terra bella e ferita, che ti forma e ti pesa, che ti spinge via ma non ti lascia andare.

Gattuso è figlio di questa gente. Lo si vede non quando parla, ma quando tace. Non quando si impone, ma quando resiste. E forse è questo che inquieta chi lo osserva: non offre redenzioni preconfezionate, non cerca scuse, non indossa maschere.

Quando lo hanno chiamato, non è stato per fiducia. È stato per stanchezza, per mancanza di alternative, per quel nostro vizio nazionale di arrivare sempre all’ultimo minuto con una candela in mano a cercare un santo a cui votarsi. «Chiamiamo Rino.» Non un’investitura, ma un gesto di resa.

Eppure la Storia, a volte, si diverte a pescare dai ripostigli i suoi protagonisti migliori. Non quelli levigati dalle retoriche, ma quelli temprati dalla vita. Gattuso non parla il linguaggio degli illuminati. Conosce un’altra grammatica: quella della fatica, dell’umiltà, della dignità che rimane anche quando hai perso. È la lingua dei popoli antichi, dei padri che non chiedevano di essere capiti, ma di essere lasciati lavorare in pace.

Quando ha risposto al presidente del Senato La Russa — «quelli non fischiavano, ci auguravano la morte» — non ha provocato. Ha ricordato al Paese che la verità non è mai elegante, ma è l’unica cosa che valga la pena dire.

E ora eccoci qui, come sempre sul ciglio del burrone, con un uomo che avanza verso il suo destino come chi affronta la pioggia senza ombrello: schiena dritta, passo sicuro, senza aspettarsi protezioni.

È in questa immagine — così cruda, così profondamente nostra — che l’Italia ritrova un briciolo di se stessa. Non la parte brillante, non quella che appare nei discorsi ufficiali, ma la parte vera: quella che non ha mai smesso di credere, anche quando tutto suggeriva di smettere.

Perché, come avrebbe detto Corrado  Alvaro un calabrese olluminato di San Luca, «la disperazione dell’uomo non è mai così completa da togliergli il bisogno della speranza». Anche quando non ci crediamo più. Anche quando sappiamo — o temiamo — che il finale potrebbe non essere felice.

E allora sì: dobbiamo ricordarcelo. A volte le favole non finiscono bene. A volte falliamo, cadiamo, ci rialziamo e cadiamo di nuovo. Ma la loro forza non sta nel lieto fine. Sta nel fatto che, ostinatamente, continuiamo a crederci.

E questo, almeno questo, nessuno potrà mai togliercelo.

Luigi Palamara 
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