Il Giornalista e il Potere: cronaca di una ferita democratica e di una intimidazione

Il Giornalista e il Potere: cronaca di una ferita democratica e di una intimidazione
L'Editoriale di Luigi Palamara 

Un luogo dove il potere non osa guardare è: la strada.
La strada vera, viva, a volte crudele, spesso generosa, sempre sincera. Non quella dei tappeti rossi e dei tagli di nastro, ma quella delle mani callose, degli sguardi che parlano, dei silenzi che raccontano più di mille discorsi politici.
È lì che nasce il mio giornalismo.
È lì che immergo le mani, come un artigiano che cerca la forma nelle vene del legno.

Scrivo, fotografo, filmo, racconto.
Ma soprattutto ascolto.
Ascolto la fioraia che si alza prima della luce, l’edicolante che sfoglia le prime pagine per capire che giornata sarà, il barista che dispensa caffè e confidenze, il commerciante che resiste, il senzatetto che sopravvive un giorno alla volta.
Sono loro, i non potenti, a darmi la materia prima del mio mestiere: l’umanità.
Non la retorica. Non le carte timbrate. L’umanità.

Ed è forse proprio questo a dare fastidio a qualcuno: che io non sia addomesticabile.
Che non misuri le parole in base alla carica di chi dovrei compiacere.
Che non risponda a padrini, patroni o padroni.

Io racconto, semplicemente.
Racconto ciò che vedo, ciò che scopro, ciò che accade. E quando serve, lo faccio anche con la lama acuminata della satira.
Perché la satira è un vaccino contro la prepotenza del potere: irrita, sì, ma immunizza.

Così accade che un giorno qualcuno — uno di quelli che amano essere chiamati “autorità” — pensi bene di rivolgersi al Questore di Reggio Calabria, invocando un ammonimento per stalking.
Stalking.
Per aver scritto.
Per aver raccontato.
Per aver svolto il mestiere più antico della democrazia: quello del giornalista che osserva e riferisce.

Una richiesta che ha dell’incredibile.
Una richiesta che stona come una nota falsa in un’orchestra.
Una richiesta che, solo a pronunciarla, racconta un mondo capovolto.

Eppure, malgrado la sua fragilità logica e giuridica, questa richiesta ha inciso nella mia vita come una lama.
Mi ha disorientato.
Mi ha ferito.
Mi ha umiliato.
Mi ha fatto provare un dolore che non avrei mai pensato di associare alla parola “giornalismo”.

Settimane di attesa, di ansia, di pensieri che si accavallavano.
Non tanto per il rischio in sé — perché la verità non teme i tribunali — ma per l’assurdità del gesto: essere costretto a difendermi per aver fatto ciò che la Costituzione mi impone di fare.
È stata un’ombra lunga sui miei giorni, un macigno sulle mie ore, un peso sulla mia mente.

Ha ridotto la mia attività.
Ha frenato la mia spontaneità.
Mi ha imposto di interrogarmi su ciò che non avrei mai dovuto mettere in discussione: la libertà del mio mestiere.

E questo, più di tutto, mi ha fatto male.

Ma ora che siamo quasi all’epilogo, ora che presto saprete se sarò ammonito — cosa che non ha precedenti nella storia del giornalismo italiano — oppure se la richiesta verrà archiviata, una cosa posso dirla con certezza assoluta:
qualsiasi sarà l’esito, io non mi spezzerò.

Perché io non ho nulla da nascondere.
La mia vita è aperta come un libro.
Le mie parole sono sotto gli occhi di tutti.
La mia trasparenza è la mia difesa naturale.

Chi tenta di intimidirmi, chi prova a sminuirmi, chi cerca di gettare fango sul mio lavoro, dovrà fare i conti con le proprie responsabilità, non con le mie.
Io sono qui, in piedi, come sempre.

E voglio essere chiaro: questo tentativo di intimidazione non è una questione privata.
È una questione pubblica.
È una questione democratica.
Perché oggi tocca a me, ma domani potrebbe toccare a chiunque osi raccontare una verità scomoda.

In una democrazia, la libertà di stampa non è un ornamento.
Non è facoltativa.
Non è un capriccio.
È l’anticorpo contro ogni deriva autoritaria.

Chi cerca di colpirla, anche attraverso vie traverse, anche dietro il paravento di cavilli, compie un gesto che riguarda tutti.

E qui lo dico senza tremare: nessuna intimidazione potrà mai spegnere la voce di chi ha scelto di servire la verità.
Potrà rallentarmi per un attimo.
Potrà ferirmi.
Potrà farmi male.
Ma non potrà cambiarmi.

Perché il cuore del giornalismo è più duro del marmo.
Più ostinato del vento.
Più resistente delle mura del potere.

E allora, sì: chi vivrà, vedrà.
Ma soprattutto saprà.
Perché io continuerò a raccontare.
Con più forza.
Con più lucidità.
Con più determinazione di prima.

E questa è la mia chiusura, la mia promessa, la mia dichiarazione di guerra pacifica:

Finché avrò voce, nessuno potrà impedirle di dire la verità.
Finché avrò mani, nessuno potrà impedirle di scrivere.
Finché avrò respiro, nessuno potrà impedirmi di essere ciò che sono:
un giornalista libero.
E un giornalista libero — davvero libero — è l’ultimo baluardo che separa la società dalla notte.

E finché il mio baluardo reggerà, la notte non vincerà.

Luigi Palamara 
Tutti i diritti riservati 
Reggio Calabria 15 novembre 2025

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