Il PD a Reggio affonda tra poltrone e tradimenti: la storia di Italo Falcomatà non ripetetela con il figlio Giuseppe.
Il PD a Reggio affonda tra poltrone e tradimenti: la storia di Italo Falcomatà non ripetetela con il figlio Giuseppe.
L'Editoriale di Luigi Palamara
Questo è un vecchio vizio della politica italiana — vecchio quanto la politica stessa — che consiste nel confondere il movimento con il progresso, il rimpasto con la rinascita, lo scambio di poltrone con la strategia. A Reggio Calabria, il Partito Democratico sembra essersi avvitato esattamente in questa spirale: cambia tutto affinché nulla cambi, e intanto pretende che il cittadino applaudisca.
La cronaca è semplice: Falcomatà cambia la Giunta. Escono Anna Briante, espressione di Seby Romeo, e Paolo Malara, uomo del Sindaco. Nel frattempo Paolo Brunetti, vicesindaco, entra nel PD. Un’uscita, un ingresso: e qualcuno già si affretta a dire paradossalmente che il PD, numericamente, non è in equilibrio. Ma la politica — quella vera — non è un bilancio condominiale, e ridurla a un gioco di sottrazioni e addizioni è l’offesa più grande che si possa fare all’intelligenza del pubblico.
In Giunta, oggi, i democratici siedono in formazione quasi monocolore: Battaglia, Brunetti, Nucera, Curatola, Tripodi e alla Presidenza del Consiglio Marra. Mai il PD aveva avuto una tale concentrazione di potere. Eppure, paradossalmente, mai era apparso così debole. Perché non è la quantità di sedie che dà forza a un partito, ma la qualità dei piedi che le reggono.
I circoli? Inesistenti. L’attività politica? Un elettrocardiogramma piatto. Le apparizioni dei dirigenti? Solo a ridosso del voto, quando si risvegliano dal letargo per distribuire promesse come biglietti della riffa. Il popolo del centrosinistra — quello che ancora resiste, che vive di ideali più che di incarichi — non sa nemmeno chi siano i suoi referenti cittadini e provinciali. E come potrebbe, se questi si manifestano solo nei corridoi dove si spartisce, non nelle piazze dove si discute?
Dentro il PD, la contesa interna è antica quanto la storia delle sue correnti. Ma far passare Giuseppe Falcomatà come “contro il PD” è una narrazione non solo falsa, ma suicida. Un autogol che indebolisce tutto il centrosinistra proprio alla vigilia delle imminenti comunali. La base — quella che vota, milita, soffre, spera — viene trattata come accessorio marginale, quando è l’unica ancora di salvezza rimasta.
E allora la storia ritorna, puntuale come una maledizione. Italo Falcomatà fu tradito dal suo stesso partito. Oggi, qualcuno sembra tentare di ripetere il copione anche con Giuseppe. Un padre che per protesta si sedette nei banchi dell’opposizione, il figlio esposto allo stesso schema. In mezzo, un partito che non ha imparato nulla: non dal passato, non dalle sconfitte, non dai collassi.
Si persevera perché si tiene alla sedia, non all’idea. Si galleggia, non si emerge. E così affonda tutti: il partito, la città, quella sinistra che da dieci anni — piaccia o no — ha avuto un solo vero vincente, Giuseppe Falcomatà.
Ma il punto, oggi come ieri, è uno solo: non consentitelo. Non per salvare una persona, ma per salvare un’idea. Quella che dice che la politica non è un gioco, né una recita di correnti, né un torneo di sopravvivenza tra "capibastone", ma un lavoro duro, quotidiano, fatto di presenza, onestà e ascolto.
Perché chi tradisce la sua base tradisce se stesso. E chi traduce la politica in un manuale di tattica perde sempre: prima l’anima, poi i voti.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria 15 novembre 2025
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