La patrimoniale che non vuole nessuno (tranne i ricchi)
L'Editoriale di Luigi Palamara
È un paradosso tutto italiano – anzi, tutto nostro, perché appartiene a quella strana antropologia che ci portiamo addosso come un marchio: il terrore delle riforme quando toccano il portafoglio, anche se non è il nostro. Una paura antica, quasi contadina, che ci fa gridare allo scandalo davanti a una patrimoniale che non ci sfiorerebbe nemmeno. E infatti non sono i più ricchi a tremare. Non lo erano quando si parlava dei 94 mila super-benestanti oltre i cinque milioni; e non lo sono oggi che il segretario della Cgil, Maurizio Landini, propone qualcosa di ancora più semplice e lineare: un contributo dell’1,3% sui patrimoni oltre i due milioni, cioè sull’1% della popolazione. Cinquecentomila contribuenti, non di più.
Una misura così produrrebbe circa 26 miliardi l’anno. Fate di nuovo il conto: in cinque anni fanno 130 miliardi di euro. Altro che gruzzolo: è una manovra finanziaria permanente, un polmone d’ossigeno capace di restituire aria a un Paese che da troppo tempo respira a metà.
E invece no: la reazione è sempre la stessa, identica come una malattia cronica. Si strilla, si invoca l’esproprio sovietico, si piange il “pericolo rosso”, ci si aggrappa alla retorica del furto di Stato. E chi urla? Mai i ricchi. Mai quelli che verrebbero toccati davvero. A urlare è la gente comune, quella che non rientra nell’1%, che non sarà colpita, che non pagherà un centesimo. Ma che, inspiegabilmente, difende patrimoni che non possiede.
Landini lo ripete fino alla noia: «Le risorse vanno prese dove sono». E dove sono? Tra chi ha molto, moltissimo, in un Paese dove il resto arranca.
Questa è l’Italia:
«un Paese irriformabile perché pretende di essere riformato dagli altri».
«Avete paura della vostra ombra, e allora la trasformate nel nemico».
Il punto, però, è che la realtà non aspetta. Non aspetta le nostre indignazioni sterili, le nostre allergie ideologiche, le nostre furbizie di retrobottega. L’Italia affonda piano ma con costanza: salari tra i più bassi d’Europa, investimenti che arrancano, servizi pubblici che cadono a pezzi, giovani che fuggono come negli anni ’50. Allora partivano con valigie di cartone; oggi con una laurea che altrove vale, qui no.
Con 130 miliardi in cinque anni si potrebbe finalmente fare ciò che da decenni rinviamo per viltà politica e miopia collettiva:
– ridurre il debito,
– modernizzare sanità e scuola,
– investire in ricerca e infrastrutture,
– tagliare il cuneo fiscale,
– ricostruire un welfare degno di un Paese civile.
Si potrebbe dare fiato a un’Italia che soffoca da anni, che consuma ciò che non produce, che prega per miracoli che non arrivano mai.
E invece?
Invece continuiamo a guardare la patrimoniale come si guarda un mostro nel buio. E più ci convinciamo che il mostro è lì per mangiarci, più gli permettiamo di crescere nella nostra immaginazione.
Nel frattempo, il vero mostro – la disuguaglianza che si fa voragine – ci divora in silenzio, ogni giorno di più.
La verità è semplice, e quindi intollerabile:
non è la patrimoniale a farci paura, ma l’idea che qualcuno possa cambiare le cose sul serio.
E noi, gli italiani, siamo un popolo che sopporta tutto, tranne il cambiamento.
Così navighiamo a vista, tra l’ennesima emergenza sociale e il solito, stanco balletto politico. E la nave Italia, per quanto solida, comincia a imbarcare acqua. Non perché manchino le risorse. Ma perché ci manca il coraggio.
Quello, purtroppo, non si tassa.
E nemmeno si redistribuisce.
Luigi Palamara
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