La recita del potere. Povera Patria.

La recita del potere. Povera Patria.
L'Editoriale di Luigi Palamara


Il teatro, oggi, ha un nome e si chiama politica. E come in ogni teatro che si rispetti, gli attori non credono più al copione: lo recitano. Male, spesso. Ognuno è la caricatura del ruolo che occupa, la macchietta di sé stesso. Parlano di popolo, ma non lo vedono; dicono “Paese”, ma intendono il proprio ufficio stampa. E così la politica, quella vera, quella che serviva per servire, è diventata un mestiere come un altro — anzi peggiore, perché vive della finzione di essere indispensabile.

Il ruolo, oggi, è potere. E il potere è un grado, non un servizio. Servire è rimasto un verbo che appartiene solo al popolo, a chi non ha voce né palco. I partiti, nel frattempo, sono diventati l’ennesima lobby di potere: cambiano nomi, colori, leader, ma non la sostanza. E i cittadini? Moneta di scambio, strumento di accredito, massa di consenso da agitare come bandiera nelle campagne elettorali, per poi dimenticarli il giorno dopo, come si fa con le bottiglie vuote.

Quanto durerà, non possiamo saperlo. Ma gli effetti si vedono, eccome. Si stanno sgretolando i ceti sociali più deboli, si spegne la speranza nelle periferie, si inaridisce la fiducia nelle istituzioni. I ricchi diventano più ricchi, i poveri si moltiplicano come numeri in un bilancio che non torna mai. E nel mezzo resta il vuoto, il deserto di un Paese che non sa più dove guardare.

E allora, ogni giorno, la stessa recita. I sorrisi in TV, le frasi fatte, le promesse in saldo. Tutti pretendono rispetto, ma calpestano ogni valore che lo renderebbe possibile: la Nazione, la Patria, la Repubblica. Parole grandi, che scivolano via dalle bocche piccole.

E noi, spettatori stanchi, continuiamo ad applaudire per abitudine. Perché, in fondo, ci hanno convinti che non c’è alternativa. Ma un popolo che si rassegna alla commedia del potere non è più un popolo: è solo la platea di un teatro che cade a pezzi.

Luigi Palamara
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