@luigi.palamara La schiena dritta degli Aspromontani L'Editoriale di Luigi Palamara Racconto la vita di un uomo nato e cresciuto in Aspromonte. Un’esistenza forgiata tra le rocce dure e il vento che taglia la pelle, tra ginestre che profumano d’estate e nebbie che inghiottono le creste come veli di mistero. Una vita vissuta in un territorio selvaggio e severo, ma capace di custodire principi sani, essenziali, universali. È un racconto che non chiede abbellimenti: è un crescendo di emozioni, di lezioni, di ferite e di orgoglio. È, in fondo, la colonna sonora della mia vita. Ed esiste — arriva per tutti, prima o poi — un momento in cui scegliere non è più un vezzo né una ribellione giovanile: diventa un atto di identità. Si sceglie il proprio stile, il proprio passo, il proprio modo—a volte ruvido, a volte timido—di stare al mondo. E in quella scelta si definisce tutto ciò che siamo disposti a difendere. Perché chi cerca di cambiarti non ti stima. Forse ti tollera, forse ti usa, ma non ti ama. L’amico vero non modella la tua anima come argilla da officina. Ti accetta. Ti segue. Cammina accanto a te sullo stesso sentiero, spesso fangoso e spesso in salita, senza chiederti di essere altro che te stesso. E il tempo—questo bene che sfugge, questo granello che scivola tra le dita anche quando le stringiamo—non merita di essere sprecato per chi non ne comprende la sacralità. Il tempo si dona, non si concede. Si affida solo a chi custodisce la nostra presenza come qualcosa di raro, non a chi la tratta come una comodità. Non cerco nuovi amici. Cerco i miei, quelli che non si sono mai allontanati neanche quando la strada diventava una mulattiera dispersa tra i castagni. Gli altri sono rumori di fondo, figure sbiadite. Non è cinismo, ma la saggezza amara che ti entra nelle ossa quando la vita ti presenta il conto. E allora si va avanti. Senza piegare la testa, perché la dignità è il mantello dei poveri e il baluardo dei forti. Con rispetto per tutti, perché il rispetto è il primo segno di civiltà che l’uomo dà di sé. Ma con il timore reverenziale verso nessuno, perché chi nasce libero non impara mai l’arte dell’inchino. Noi Aspromontani siamo questo: figli di montagne nude, severe come un giudice antico, ma capaci di una bellezza che non si concede a chi non ha sofferto un po’. L’Aspromonte non è soltanto un luogo: è una presenza. È la voce del vento che risale dai valloni portando l’odore delle ginestre e il lamento delle capre che rientrano agli ovili al tramonto. È il canto delle acque che scendono sotto la Punta di Parellisi e dalle timpe, limpide e fredde come verità non negoziabili. Le nostre case — ieri come oggi — sembravano “rifugi di uomini diffidenti, ma pieni di un’umanità che non si nega mai del tutto”. Ed è così ancora. Le porte si aprono poco, è vero, ma quando si aprono, lo fanno con una generosità antica, di quelle che non chiedono ringraziamenti. Il nostro popolo porta addosso il destino delle montagne: taciturno, resistente, fatalista eppure affamato di vita. Le donne, con lo sguardo fiero e la pazienza di chi conosce la dura geografia del sacrificio. Gli uomini, segnati dal sole e dal vento, portatori di un onore che non ha bisogno di proclami. Gente che “non si arrende alla sventura, ma la accompagna, come si accompagna una bestia testarda”. E poi i paesi arrampicati sulle creste, come nidi costruiti con la forza delle mani e la caparbietà dei sogni. Paesi come Roccaforte del Greco, che sembrano sfidare il cielo nelle giornate limpide e scomparire nella nebbia quando la montagna decide di riprendersi il suo mistero. Lì, tra le pietre calde d’estate e gelide d’inverno, si impara che la vita non fa sconti, ma insegna. Sempre. Siamo gente d’altri tempi perché il nostro tempo ha un altro ritmo: quello dei passi lenti, del lavoro fatto senza clamore, della parola pesata, del dolore sopportato con dignità. L’Aspromonte ci ha cresciuti così: duri come le sue rocce, sensibili come i suoi silenzi. E così andiamo avanti. Con la schiena dritta, come si
♬ suono originale - Luigi Palamara
La schiena dritta degli Aspromontani
L'Editoriale di Luigi Palamara
Racconto la vita di un uomo nato e cresciuto in Aspromonte. Un’esistenza forgiata tra le rocce dure e il vento che taglia la pelle, tra ginestre che profumano d’estate e nebbie che inghiottono le creste come veli di mistero. Una vita vissuta in un territorio selvaggio e severo, ma capace di custodire principi sani, essenziali, universali. È un racconto che non chiede abbellimenti: è un crescendo di emozioni, di lezioni, di ferite e di orgoglio. È, in fondo, la colonna sonora della mia vita.
Ed esiste — arriva per tutti, prima o poi — un momento in cui scegliere non è più un vezzo né una ribellione giovanile: diventa un atto di identità. Si sceglie il proprio stile, il proprio passo, il proprio modo—a volte ruvido, a volte timido—di stare al mondo. E in quella scelta si definisce tutto ciò che siamo disposti a difendere.
Perché chi cerca di cambiarti non ti stima. Forse ti tollera, forse ti usa, ma non ti ama. L’amico vero non modella la tua anima come argilla da officina. Ti accetta. Ti segue. Cammina accanto a te sullo stesso sentiero, spesso fangoso e spesso in salita, senza chiederti di essere altro che te stesso.
E il tempo—questo bene che sfugge, questo granello che scivola tra le dita anche quando le stringiamo—non merita di essere sprecato per chi non ne comprende la sacralità. Il tempo si dona, non si concede. Si affida solo a chi custodisce la nostra presenza come qualcosa di raro, non a chi la tratta come una comodità.
Non cerco nuovi amici. Cerco i miei, quelli che non si sono mai allontanati neanche quando la strada diventava una mulattiera dispersa tra i castagni. Gli altri sono rumori di fondo, figure sbiadite. Non è cinismo, ma la saggezza amara che ti entra nelle ossa quando la vita ti presenta il conto.
E allora si va avanti. Senza piegare la testa, perché la dignità è il mantello dei poveri e il baluardo dei forti. Con rispetto per tutti, perché il rispetto è il primo segno di civiltà che l’uomo dà di sé. Ma con il timore reverenziale verso nessuno, perché chi nasce libero non impara mai l’arte dell’inchino.
Noi Aspromontani siamo questo: figli di montagne nude, severe come un giudice antico, ma capaci di una bellezza che non si concede a chi non ha sofferto un po’. L’Aspromonte non è soltanto un luogo: è una presenza. È la voce del vento che risale dai valloni portando l’odore delle ginestre e il lamento delle capre che rientrano agli ovili al tramonto. È il canto delle acque che scendono sotto la Punta di Parellisi e dalle timpe, limpide e fredde come verità non negoziabili.
Le nostre case — ieri come oggi — sembravano “rifugi di uomini diffidenti, ma pieni di un’umanità che non si nega mai del tutto”. Ed è così ancora. Le porte si aprono poco, è vero, ma quando si aprono, lo fanno con una generosità antica, di quelle che non chiedono ringraziamenti.
Il nostro popolo porta addosso il destino delle montagne: taciturno, resistente, fatalista eppure affamato di vita. Le donne, con lo sguardo fiero e la pazienza di chi conosce la dura geografia del sacrificio. Gli uomini, segnati dal sole e dal vento, portatori di un onore che non ha bisogno di proclami. Gente che “non si arrende alla sventura, ma la accompagna, come si accompagna una bestia testarda”.
E poi i paesi arrampicati sulle creste, come nidi costruiti con la forza delle mani e la caparbietà dei sogni. Paesi come Roccaforte del Greco, che sembrano sfidare il cielo nelle giornate limpide e scomparire nella nebbia quando la montagna decide di riprendersi il suo mistero. Lì, tra le pietre calde d’estate e gelide d’inverno, si impara che la vita non fa sconti, ma insegna. Sempre.
Siamo gente d’altri tempi perché il nostro tempo ha un altro ritmo: quello dei passi lenti, del lavoro fatto senza clamore, della parola pesata, del dolore sopportato con dignità. L’Aspromonte ci ha cresciuti così: duri come le sue rocce, sensibili come i suoi silenzi.
E così andiamo avanti. Con la schiena dritta, come si addice a chi non ha mai chiesto favori al destino. Con il cuore legato alla nostra montagna e lo sguardo rivolto all’orizzonte. Perché chi è nato tra queste cime sa bene che la forza dell’uomo non è nel gridare, ma nel resistere. E nel continuare a camminare anche quando la strada si perde tra le nuvole.
Luigi Palamara
Artista e Giornalista
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