Quando i numeri mentono e le vite sanguinano: la verità che frantuma la retorica
Dal grido di Battaglia alla profezia di Kennedy: guerra, PIL e progresso smascherati nella loro stessa finzione, per ricordarci che l’unica ricchezza è l’umano che stiamo perdendo.
L'Editoriale di Luigi Palamara
Quando la guerra mente e l’umanità arretra, ci accorgiamo che il mito del progresso parla la stessa lingua dei bollettini di guerra: neutra, tecnica, derresponsabilizzante. È qui che la voce del cardinale Battaglia — fendenti, non omelie — si incrocia con quella di Robert Kennedy, che già nel 1968 denunciava la più sofisticata delle nostre illusioni: credere che i numeri possano salvare l’uomo mentre lo stanno cancellando.
Il porporato scaglia sassate contro il vetro della retorica bellica; Kennedy, quasi sessant’anni fa, frantumava quella economica. Eppure la dinamica è identica: la trasformazione della vita in cifra, dell’umano in variabile, del dolore in un rumore di fondo da normalizzare. Così la guerra diventa un algoritmo da ottimizzare e la prosperità un grafico in salita; le bombe hanno proprietari che non compaiono al catasto, e il cosiddetto “benessere” ha costi che nessuna nazione osa mettere a bilancio.
Kennedy lo diceva con lucidità profetica: non troveremo mai un fine per la nazione né una soddisfazione personale nell’ammassare beni. Il PIL può crescere grazie a napalm, serrature blindate, carcere e inquinamento. Misura ogni forma di distruzione purché produca transazioni. È un indice che contabilizza i fumi delle fabbriche, ma non l’aria che respira un bambino; registra il valore di un missile, ma ignora la madre inginocchiata su un cumulo di polvere. Misura tutto, diceva Kennedy, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
È la stessa denuncia che oggi si leva dalle parole di Battaglia: chiamare bambini i bambini, soldati i ragazzi spediti a morire, madri le madri. Ridare corpo a ciò che la propaganda, fosse essa militare o economica, vorrebbe inodore. Smontare l’idea che una società possa dirsi sana perché il PIL avanza mentre l’umano arretra. Perché, come ricordava l’economista che non voleva essere economista, il PIL cresce anche quando si ricostruiscono quartieri rasi al suolo, quando la violenza diventa spettacolo, quando la paura diventa mercato.
La guerra e il capitalismo cieco hanno dunque la stessa grammatica: sterilizzare la vergogna, annacquare il sangue, monetizzare il tempo. Nessuno calcola il costo delle merci inutili, dei capannoni vuoti, dei camion che vagano come insetti impazziti. Nessuno conteggia gli anni buttati in coda, o dietro lavori che producono oggetti inutili che poi compriamo per riempire vite svuotate. Nessuno misura il prezzo della Terra che si consuma, del tempo che si accartoccia, del senso che evapora. Il PIL — un mostro che divora ciò che dovrebbe proteggere — trasforma la realtà in valore solo quando riesce a venderne le macerie.
E allora il monito di Battaglia e quello di Kennedy convergono: l’umano non è una variabile del PIL né una colonna di un rapporto geopolitico. È l’unica contabilità che meriti di essere salvata. O torniamo a riconoscere il valore del corpo, dell’infanzia, della terra, della vita — oppure ci abituiamo all’odore delle pietre bruciate come fosse un dopobarba, e all’illusione che la crescita economica equivalga alla crescita della civiltà.
Non è questione di religione. Non è questione di politica. È questione di sopravvivenza della specie e della coscienza.
E mentre l’indifferenza resta l’unica guerra che vinciamo sempre, risuona più che mai la profezia dei Creek:
«Solo quando l’ultimo fiume sarà prosciugato,
l’ultimo albero abbattuto,
l’ultimo animale ucciso,
solo allora capirete che il denaro non si mangia».
Se un giorno ci verrà chiesto che cosa abbiamo fatto dell’umano che ci era stato affidato, sarebbe meglio avere una risposta diversa dall’ennesima sirena nella notte — e da un altro grafico che sale mentre tutto il resto crolla.
Luigi Palamara
Artista e Giornalista
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