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OCCHIUTO: “L’Ultimo Governatore”

OCCHIUTO: “L’Ultimo Governatore”
Editoriale di Luigi Palamara
un cronista che non ha smesso di credere al dovere di raccontare, anche quando fa male


Arriva un momento, nella parabola di ogni uomo di potere, in cui il silenzio diventa più rumoroso di mille dichiarazioni, e le strette di mano cominciano a tremare come foglie d'autunno. Per Roberto Occhiuto, governatore della Calabria, quel momento è adesso.

Il sole di luglio batte forte sui vetri della Cittadella di Catanzaro, ma dentro le stanze ovattate del potere si gela. Si suda freddo. I faldoni della Procura si accumulano come macerie politiche: corruzione, peculato, turbativa d’asta — vocaboli che per un presidente suonano come la campana di vetro della fine. Eppure, lui resiste. Non solo: rilancia. Si dice “stuprato”, ma con la compostezza tipica dell’uomo d’ordine chiede di essere sentito subito, anche senza carte. Un gesto che ha il sapore del pugile che chiede di combattere a mani nude, nel mezzo dell’arena. Ma le arene sono fatte per i gladiatori, e la Calabria non è Roma. È, semmai, Cartagine in decadenza.

Occhiuto, per anni volto patinato della nuova destra meridionale, aveva promesso di fare della sanità calabrese un fiore all’occhiello, della burocrazia un ingranaggio pulito, della depurazione delle acque una questione morale. E invece eccolo lì, nel mirino di chi indaga su incarichi sospetti, bonifici ambigui, favori incrociati, nomine pilotate. Attorno a lui, un cerchio ristretto — o forse troppo largo — di manager, subcommissari, consiglieri, che adesso sembrano sciogliersi come neve sporca al primo raggio d’inchiesta.

E allora viene da chiederselo: dove sono finiti gli alleati di ieri? Quei colleghi che applaudivano i suoi proclami a reti unificate, che firmavano con lui patti e promesse, che lo innalzavano a simbolo del “riscatto calabrese”? Oggi sono muti. Più che muti: sono lesti. Studiando il dopo. Il “Dopo Occhiuto”. Come se fosse già una data sul calendario, un’inevitabile resa dei conti.

Qualcuno, nei palazzi, parla sottovoce di un piano B. Qualcun altro, con voce più alta, di un piano C. La verità è che il governatore — almeno politicamente — è più solo di quanto sembri. Solo, come lo fu *Cecco Beppe alla fine della monarchia asburgica: chiuso nel suo castello, mentre gli altri già brindano alla nuova era.

Eppure, c'è qualcosa di profondamente calabrese in questa scena. Un governatore circondato da squali, la politica che non attende la giustizia ma si prepara a salire sul carro nuovo, i cittadini divisi tra sospetto e orgoglio. Perché, incredibile a dirsi, Occhiuto resta popolare. Il consenso — quel termometro sporco e maledettamente sincero — lo dà ancora sopra il 58%. Sintomo di una regione dove l’onestà si misura più col cuore che con i codici, dove l’efficienza conta più del sospetto, e dove ogni colpevole è sempre, almeno un po’, anche una vittima.

Ma Occhiuto lo sa. Lo sente. Ormai cammina in un vicolo cieco, e il rumore che sente non è il vento: è il respiro degli squali.

Forse cadrà. Forse resisterà. Ma se mai dovesse uscire di scena, non cadrà da statista. Né da martire. Ma da un uomo che ha avuto tutto — e ha perso tutto — sotto il peso del sistema che voleva riformare e che, invece, lo ha ingoiato.

Come sempre accade a Sud, dove il potere si maneggia col guanto di velluto e si restituisce col pugnale sotto la toga.

Chiunque vada al potere in Calabria deve ricordare che qui il fuoco non brucia: ti brucia l’acqua. E il fango, come la memoria, è lento. Ma non perdona.

Luigi Palamara

* "Cecco Beppe" era il soprannome scherzoso o dispregiativo dato all'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe I, soprattutto durante il periodo del Risorgimento italiano e durante la Prima Guerra Mondiale. Il termine è legato al fatto che, per gli italiani, Francesco Giuseppe rappresentava il sovrano straniero che dominava territori italiani.

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