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Regione Calabria. Consulenze, Silenzi e Intercettazioni: Anatomia morbida di una Calabria sotto vetro.

Regione Calabria. Consulenze, Silenzi e Intercettazioni: Anatomia morbida di una Calabria sotto vetro.

Editoriale di Luigi Palamara


C’è qualcosa di profondamente italiano, e tragicamente calabrese, nella vicenda che in questi giorni scuote la Regione: un intreccio di nomi noti, incarichi pubblici, compensi generosi e interrogativi silenziosi che, come spesso accade, esplodono solo quando un’intercettazione spezza l’equilibrio delle mezze verità.

La Procura di Catanzaro ha acceso una luce chirurgica su un sistema di consulenze e incarichi paralleli, nati all’ombra della struttura commissariale per la depurazione. Una struttura teoricamente tecnica, ma che – se l’accusa reggerà – si sarebbe trasformata in una rete opaca di favori e remunerazioni poco trasparenti.

Al centro, il sub commissario Antonino Daffinà, 63 anni, uomo di Forza Italia. Accanto a lui, un quartetto di nomi che definire “ibridi” è poco: una segretaria particolare con doppio incarico (Veronica Rigoni), un professore universitario dal ruolo evanescente (Giulio Nardo), e un giornalista vibonese incaricato per la comunicazione (Antonino Fortuna).

Si potrebbe parlare di “sistema affettivo degenerato”, dove il potere non è più passione civile, ma scambio rassicurante tra chi ha e chi deve avere.

Oppure scrolliamo la testa: «Non è il reato che scandalizza. È la banalità dell’esecuzione».

Il dettaglio, come sempre, è rivelatore: la dirigente Sogesid che, intercettata, alza le spalle su Rigoni: «Non ha fatto niente». Un gesto più potente di mille verbali. E ancora, la battuta da bar sul professor Nardo: «Che cazzo c’entra?». Mentre Fortuna si difende con fermezza, documentazione alla mano, rivendicando onestà e trasparenza.

Eppure, il punto non è (solo) chi ha fatto o non ha fatto. Il punto è un sistema che sopravvive – mimetizzato – in ogni stagione: incarichi senza tracciabilità reale, fondi pubblici che corrono più veloci della documentazione, e una struttura istituzionale dove il merito è, ancora una volta, il grande assente.

Perché alla fine, ciò che inquieta, è la normalità con cui accade tutto questo. La Calabria – terra dolente e ferita – continua a soffrire nel settore più simbolico: la depurazione, cioè la promessa di pulizia. Eppure, mentre i depuratori arrancano, la comunicazione fiorisce. O dovrebbe. Se non fosse che, anche lì, mancano i video. O almeno nessuno li trova.

Nel suo post, Antonino Fortuna scrive: «Il mio lavoro c’è». È un grido composto, e umano. Ma quel “lavoro” – come per gli altri coinvolti – ora sarà giudicato non dalla buona volontà, ma da fatture, relazioni, cronoprogrammi, e prove documentali. Perché è questo che lo Stato chiede, o dovrebbe chiedere, a chi riceve fondi pubblici: non solo dignità, ma misurabilità.

La giustizia farà il suo corso, come è giusto. Ma la politica, se vuole ancora meritare rispetto, dovrebbe già oggi fare il suo: domandarsi come sia stato possibile. E rispondere, senza aspettare le sentenze, a quella domanda che da Vibo a Catanzaro tutti sussurrano: "Era davvero necessario? O solo comodo?"

Nel Paese dove tutto è personale e niente è mai responsabilità, un’indagine come questa non è solo giudiziaria. È antropologica.

Luigi Palamara

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